IGNOTO (Renzo)

 

giovedì, 25 marzo 2010

IGNOTO (Renzo)

Carissimi amici e parenti tutti, è nel più profondo ed accorato dolore che vi lascio in questa valle di lacrime. Ci ritroveremo tutti nel più alto dei cieli, nel cielo dei giusti e della gloria. Muoio da eroe e non da vile, muoio per la mia cara Italia che ho sempre adorato, muoio e nel più estremo dei miei momenti di vita terrena grido vendetta per il mio sangue sparso così innocentemente. Miei cari zii e zie allevate i vostri figli con il più alto dei sentimenti: quello della Patria e dell’onore. Al mio caro cuginetto che dovrà nascere come mia ultima volontà gli porrete nome Vittorio, come a simboleggiare la vittoria della mia causa. Miei cari amici e compagni, tenete sempre alto il mio nome come uno dei più puri, ricordandomi nei più sereni momenti di allegria festosa che ho passato con voi. Con questo vi abbraccio e vi benedico.           Vostro Renzo.       (Condannati a morte della Resistenza).

 

MARZO 1821

 

 

 

Soffermati sull’arida sponda,

 

volti i guardi al varcato Ticino,

 

tutti assorti nel novo destino,

 

certi in cor dell’antica virtù,

 

han giurato: Non fia che quest’onda

 

scorra più tra due rive straniere:

 

non fia loco ove sorgan barriere

 

tra l’Italia e l’Italia, mai più!

 

L’han giurato: altri forti a quel giuro

 

rispondean da fraterne contrade,

 

affilando nell’ombra le spade

 

che or levate scintillano al sol.

 

Già le destre hanno stretto le destre;

 

già le sacre parole son porte:

 

o compagni sul letto di morte,

 

o fratelli su libero suol.

 

Chi potrà della gemina Dora,

 

della Bormida al Tanaro sposa,

 

del Ticino e dell’Orba selvosa

 

scerner l’onde confuse nel Po;

 

chi stornargli del rapido Mella

 

e dell’Oglio le miste correnti,

 

chi ritorgliergli i mille torrenti

 

che la foce dell’Adda versò,

 

quello ancora una gente risorta

 

potrà scindere in volghi spregiati,

 

e a ritroso degli anni e dei fati,

 

risospingerla ai prischi dolor:

 

una gente che libera tutta,

 

o fia serva tra l’Alpe ed il mar;

 

una d’arme, di lingua, d’altare,

 

di memorie, di sangue e di cor.

 

 

 

Con quel volto sfidato e dimesso,

 

con quel guardo atterrato ed incerto,

 

con che stassi un mendico sofferto

 

per mercede nel suolo stranier,

 

star doveva in sua terra il Lombardo;

 

l’altrui voglia era legge per lui;

 

il suo fato, un segreto d’altrui;

 

la sua parte, servire e tacer.

 

O stranieri, nel proprio retaggio

 

torna Italia, e il suo suolo riprende;

 

o stranieri, strappate le tende

 

da una terra che che madre non v’è.

 

Non vedete che tutta si scote,

 

dal Cenisio alla balza di Scilla?

 

Non sentite che infida vacilla

 

sotto il peso de’ barbari piè?

 

O stranieri! Sui vostri stendardi

 

sta l’obbrobrio d’un giuro tradito;

 

un giudizio da voi proferito

 

v’accompagna all’iniqua tenzon:

 

voi che a stormo gridaste in quei giorni:

 

 

 

Dio rigetta la forza straniera;

 

ogni gente sia libera, e pera

 

dalla spada l’iniqua ragion.

 

Se la terra ove oppressi gemeste

 

preme i corpi de’ vostri oppressori,

 

se la faccia d’estranei signori

 

tanto amara vi parve in quei dì;

 

chi v’ha detto che sterile, eterno

 

saria il lutto dell’itale genti?

 

Chi v’ha detto che ai nostri lamenti

 

saria sordo quel Dio che v’udì?

 

Sì, quel Dio che nell’onda vermiglia

 

chiuse il rio che inseguiva Israele,

 

quel che in pugno alla maschia Giaele

 

pose il maglio, ed il colpo guidò;

 

quel che è Padre di tutte le genti,

 

che non disse al Germano giammai:

 

va, raccogli ove arato non hai;

 

spiega l’ugne; l’Italia ti do.

 

Cara Italia! Dovunque il dolente

 

grido uscì del tuo lungo servaggio;

 

dove ancor dell’umano lignaggio,

 

ogni speme deserta non è;

 

dove già libertade è fiorita,

 

dove ancor nel segreto matura,

 

dove ha lacrime un’alta sventura

 

non c’è cor che non batta per te.

 

Quante volte sull’Alpe spiasti

 

l’apparir d’un amico standardo!

 

Quante volte intendesti lo sguardo

 

ne’ deserti del duplice mar!

 

Ecco alfin dal tuo seno sboccati,

 

stretti intorno a’ tuoi santi colori,

 

forti , armati de’ propri dolori,

 

i tuoi figli son sorti a pugnar.

 

Oggi, o forti, sui volti baleni

 

il furor delle menti segrete:

 

per l’Italia si pugna, vincete!

 

Il suo fato sui brandi vi sta.

 

O risorta per voi la vedremo

 

al convito da’ popoli assisa,

 

o più serva; più vil, più derisa,

 

sotto l’orrida verga starà.

 

 

 

Oh giornate del nostro riscatto!

 

oh dolente per sempre colui

 

che da lunge, dal labbro d’altrui,

 

come un uomo straniero, le udrà!

 

Che ‘a suoi figli narrandole un giorno

 

dovrà dir sospirando: io non c’era;

 

che la santa vittrice bandiera

 

salutata quel dì non avrà.

 

-Alessandro Manzoni-

 

Vedi: CAPO LXV

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