PUGNO TESO

 

domenica, 21 maggio 2017

PUGNO TESO

Quelli sulla piazza si agitavano ogni volta che n’arrivava ancora. Piccole folle arrivavano di tra la nebbia ad ingrossar le file, e nelle file ci si stringeva ogni volta di più; poi la piazza fu una sola folla, fu una turba immensa. Qualcuno parlò nella nebbia fredda che si era fatta più spessa, così spessa che si potevano contare in fila non più di sei o sette teste e parlato che ebbe si alzò un brusio immenso. Allora la folla ondeggiò e s’agitò e s’ingrandì il brusio di ognuno si fece appresso a quelli coi quali era partito alla mattina ed in breve dalla piazza sfociò nella via un corteo grandioso. Era una valanga immensa, una valanga di carne, muta e triste che fermò ogni traffico: avanzava lenta ma inesorabile nella nebbia, come un fiume che ha rotto l’argine. C’erano donne e uomini, e ragazzi e ragazze, a cento, a mille e mille; figli col loro padre e mamme con in braccio i piccoli, e abiti sdruciti, scarpe scalcagnate. C’erano teste bianche e creature mutilate c’erano, e tante e tante facce smunte, gialle, sofferenti e gli occhi tristi… Un’altra folla sostò a guardare, quella dei marciapiedi, e taceva e guardava sapendo chi s’era e perché s’andava per le vie così. E la turba andava, andava sempre e sempre triste, sempre più muta… Sfilò lenta sotto le finestre ampie di palazzi lucidi fatti di marmo e dietro le finestre c’erano visi a guardare senza aver vergogna, sfilò lenta sotto le mura monche delle case della povera gente che squarciò la guerra e che nessuno ancora ha rifatto!, passò cupa in faccia alle banche illuminate dentro e oltrepassò umile le grandi chiese pensando a Cristo… S’andò per ore ed una ragazza mi disse: “Io son qui perché ho la madre a letto ed i fratelli piccoli”. “Ed il padre?”. “Il babbo è morto”, disse. Ed al mio fianco un uomo con una gamba storpia pianse, poi rotolò bolsendo una sigaretta di tabacco nero che puzzava in bocca e nel naso dei vicini. Nei caffè e dentro i bar c’era gente che allungava il collo di dietro alle vetrate, ma i più restavano oziosamente immoti attorno ai tavolini con le loro pance grasse, ed i loro visi lustri e ben pasciuti si piegavano in un sorriso… ch’era beffa ed era scherno per quei cagnacci che andavano così per via in gregge. Ed il gregge vedeva ma andava avanti con negli occhi lampi d’odio e tristezza nera. Quanti giorni gli armenti di quel gregge han visto quei visi lustri e tutto quel che v’è dentro a quei locali… Vi passano davanti ogni giorno coi loro passi stanchi, con la barba lunga e con le scarpe rotte… e con loro anch’io, lento, triste e stanco. Ogni giorno… vanno e senza meta, col capo basso e coi vestiti stinti. Qualcuno si ferma a volte dinanzi alla vetrina… e guarda… ed ha gli occhi lucidi… e chissà a cosa pensa… Va così per ore, forse fino a sera, come faccio anch’io, ch’è più triste e doloroso restar di giorno in casa! Tutto quanto potevasi tentare, io e loro, l’abbiamo tentato… tutto, perfino la frontiera, io. Ogni giorno ne trovo e ne sorpasso tanti, ed a volte vado per un pezzo dove vanno loro, come loro anch’io lento, triste e stanco. Ogni giorno e da molto e chissà per quanto ancora… In una piazza la turba si fermò, e tanta gente e tante macchine furono chiuse in mezzo a quel mare silenzioso che puzzava forte odor di povertà; e la turba vide che quello sulle macchine avevano sgomento sulla faccia perché bruciava loro veder quel gregge proprio in muso ed i suoi visi smunti ed i suoi occhi tetri e pensavano forse a come uscir di là. Ma nessuno li toccò, nessuno. Uno solo disse: “Tutti boie”. Poi s’andò ancora… Una donna, ma aveva la borsa della spesa, ci batté le mani… ed un uomo rude, fermo col suo camion, salutò col pugno teso. Negli occhi della folla passò un lampo, ma era di bontà. In una via c’erano macchine in fila di poliziotti armati… e la folla passò di fianco guardando anche a loro in faccia… e più donne dissero: “Han da avere la madre anche loro!”. Più avanti invece essi ci fermarono… ma fu per poco, la turba era un mare… e quel mare li travolse… e sopra al mare c’era Iddio… ed i cartelli rozzi di quella folla dov’era scritto quel che quella turba aveva in cuore e sulla bocca… “Lavoro… lavoro… e pane”. (Meditazione su: Milano, 22-1-1948 di Luigi Dalla Francesca).

 

LA CANZONE DEL DISOCCUPATO

 

Non voglio i tuoi soldi, mister

 

Non voglio il tuo anello di brillanti;

 

Voglio solo il diritto di vivere, mister;

 

Restituiscimi il mio posto.

 

Non voglio la tua Rolls-Royce, mister

 

Non voglio il tuo elegante panfilo;

 

Voglio solo cibo per i miei figli;

 

Restituiscimi il mio posto.

 

Abbiamo lavorato per costruire questo paese

 

Mentre tu te la godevi in mille divertimenti;

 

Tu hai rubato il nostro lavoro, mister

 

Ed ora i nostri figli soffrono freddo e fame.

 

Se ti va, di’ pure che sono uno scemo, mister

 

Chiamami pure verde, blu o rosso

 

Ma di una cosa sono sicuro, mister:

 

I bambini affamati devono mangiare.

 

Prendi i due vecchi partiti, mister:

 

Fra loro non c’è differenza;

 

Ma con un Partito di operai e contadini

 

Noi vedremo libero il nostro popolo.

 

(canzone americana anni 1950 di Anonimo)

 

Vedi:    EREZ ISRAEL (3 Aprile 2017)

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