UN PARTITO DI TIPO NUOVO
venerdì, 4 marzo 2016
-ARNO-
UN PARTITO DI TIPO NUOVO
L’affermazione che il partito comunista sia stato creato, in Italia, unicamente per imitare un modello proveniente da un altro paese o, con volgarità anche più evidente, per seguire un ordine straniero (l’”ordine di Mosca”), deve essere giudicata alla stregua delle sciocchezze e banalità su cui tenta di reggersi l’agitazione anticomunista. La respinge chiunque intenda seriamente occuparsi della storia dei partiti politici. Carlo Morandi, nel respingerla, collega l’origine del nostro partito alla “crisi europea dei vecchi partiti socialisti, che non avevano saputo impedire la guerra, né esercitare una efficace influenza per una impostazione veramente democratica della pace, e che nel caos generale post-bellico non osavano mettersi per una via decisamente rivoluzionaria”. Si tratta, però, di una considerazione parziale e di una spiegazione indiretta, che non sottolineano il momento decisivo, il quale deve essere ricercato, nel nostro paese, in quella profondissima crisi di tutta la sua vita economica e politica, che dopo la prima guerra mondiale venne alla luce in modo drammatico. Tutti sanno che da questa crisi uscì, per il popolo italiano, una catastrofe, il regime fascista; in generale manca, però, la consapevolezza che le premesse, tanto di quella catastrofe quanto dello sconvolgimento da cui essa doveva scaturire, sono da ricercarsi non solo nelle immediate vicende degli anni precedenti, ma nella struttura stessa del paese, com’era uscita dal processo di formazione dello Stato unitario e dai primi cinquant’anni della sua esistenza. Il movimento socialista era stato incapace di affrontare la situazione con una lotta per riforme radicali, volte a rompere la catena dei privilegi economici e scuotere il dominio politico borghese. Aveva sempre con calore espresso una combattiva solidarietà con le popolazioni meridionali vittime delle violenze governative, ma ignorato il problema del Mezzogiorno come problema che doveva stare al centro di una lotta efficace e radicale contro il capitalismo italiano. Lo sviluppo dal capitalismo all’imperialismo si compì anche in Italia, perché industria e capitale finanziario si erano rafforzati e alimentavano nuove tendenze alla espansione e alle conquiste coloniali, cui corrispondevano, nel campo delle idee, le correnti nazionalistiche, antidemocratiche e antisocialiste. Non si deve dimenticare che questo avveniva in un paese dove del socialismo si conosceva solo il nome e una vera vita democratica mai si era avuta; dove non erano ancora stati realizzati i compiti di trasformazione economica, soprattutto nelle campagne, che sono propri delle rivoluzioni borghesi, dove in intiere zone, di campagna e di città, i lavoratori vivevano in condizioni non molto superiori a quelle di una popolazione coloniale. Proprio nel momento in cui l’Italia si lanciava in una guerra coloniale, i contrasti di classe e politici tendevano quindi alla esasperazione. L’impresa di Libia fu vivacemente avversata dalle masse popolari avanzate, si moltiplicarono i conflitti con la forza pubblica, si giunse a quel confuso tentativo insurrezionale, diretto dai socialisti, repubblicani e anarchici, che fu la “settimana rossa” (giugno 1914). Il partito socialista, sotto la direzione di Mussolini, si spostava su posizioni estremiste, a cui però non corrispondeva alcun orientamento politico che fosse rivoluzionario in senso positivo e non soltanto nelle parole e nei gesti. L’estremismo socialista rivelava l’esistenza di una frattura sempre più profonda di tutto il corpo sociale e contribuiva ad approfondirla, era però incapace di fare altro. I problemi reali dell’economia e del potere, le questioni della terra, del livello di esistenza dei lavoratori, dei loro diritti e della loro posizione nello Stato emergono in modo drammatico. Alla pressione sempre più forte che parte dal basso si oppone però una resistenza altrettanto tenace del vecchio ceto privilegiato. Se è vero che gli estremisti di sinistra, i “massimalisti” di allora, non facevano e non sapevano fare altro che gesti e parole, altrettanto è vero che i capi riformisti si dilettavano di un messianismo alla rovescia. Il caos nel quale l’Italia stava sprofondando era per essi l’”espiazione”, cui la società borghese era condannata per il crimine commesso da chi aveva voluto la guerra e a cui era inutile sottrarsi. Dall’una e dall’altra parte non vi era che incapacità e impotenza. E infine, anche ammessa una capacità di politica costruttiva nei socialisti riformisti, con chi avrebbero mai potuto collaborare, quando i vecchi uomini politici erano tutti orientati, a cominciare da Giolitti, a sostenere l’attacco fascista alle organizzazioni operaie, e il partito cattolico dei popolari si presentava anch’esso, prima di ogni altra cosa, come strumento di lotta contro il movimento socialista? Non è però del tutto giusto affermare che il compito dei comunisti consistette soltanto di trarre le somme di una situazione quasi disperata allo scadere di essa: poiché il movimento delle masse era stato ricacciato indietro o sconfitto essendogli mancata la necessaria guida rivoluzionaria, creare, pensando ad un avvenire più o meno lontano, questa guida, cioè un partito di tipo nuovo. (Meditazione tratta dalla lettura del libro: Il Partito Comunista Italiano di Palmiro Togliatti).
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