LORO

 

venerdì, 16 marzo 2012

LORO

 

Da quando la repubblica è caduta in balia d’un pugno di potenti, a loro versano i tributi i re e i tetrarchi, a loro pagano imposte popoli e nazioni; gli altri, noi tutti, coraggiosi, onesti, nobili e non nobili, non siamo stati che volgo, senza autorità, senza prestigio, sottomessi a coloro ai quali, se lo stato fosse efficiente, dovremmo far paura. Così, influenze, poteri, onori, ricchezze appartengono a loro e a quelli che godono dei loro favori; a noi hanno lasciato sconfitte elettorali, insicurezza, processi, miseria. Fino a quando, o miei prodi, siete disposti a sopportare? Non è preferibile morire da forti che consumare ignominiosamente un’esistenza misera, oscura, fatti zimbello dell’altrui superbia? Ma, in verità, e chiamo a testimoni gli dei e gli uomini, ormai abbiamo la vittoria in pugno. Siamo giovani e non ci manca l’ardire; essi, al contrario, li hanno logorati gli anni e gli agi. Basterà avviare l’impresa, il resto verrà da sé. C’è un uomo al mondo, un vero uomo intendo, disposto a tollerare che vi sia chi anche dopo aver profuso tesori per edificare sul mare, per spianare i monti, guazza nell’oro mentre a noi manca persino il necessario? Che quelli mettano in comunicazione palazzo e palazzo per abitarvi, e noi non abbiamo neppure un tetto? Per quanto comprino quadri, statue, argenteria cesellata, demoliscano case nuove per costruirne altre, insomma spendano in tutti i modi, ad onta di questi sprechi non riescono mai a esaurire i patrimoni. Noi, invece, a casa nei debiti; avversità d’ogni genere e un domani ancora più fosco: che cosa ci resta, se non questa grama esistenza? ( Meditazione su: La congiura di Catilina ”xx” di Gaio Crispo Sallustio).

 

 

 

A      M  I  L  A  N  O

 

… Giorno verrà che in altre piagge, in qualche

 

Altra contrada u’ spingerammi forse

 

La sorda ancora impenetrabil sorte,

 

Saran tutti di te i miei pensieri,

 

Arridente Milano, ove seconda

 

Han patria dolce i non tuoi figli anch’essi;

 

E chiara vai tra le europee sorelle

 

Qual felice terren cui serpe a tutte

 

Le stranie piante acconcia linfa in seno,

 

E di sugo largo ad ognuna,

 

L’indol ne appaga e lor radici attragge.

 

Di tranquilla virtù lido ferace,

 

Sempre a te lieto il suo ritorno affretti

 

L’astro del giorno, e si consoli e goda

 

Su i pacifici tetti a freonda ignoti

 

La porpora versar de’ raggi suoi.

 

Qui fede ancora e verità, qui schietti

 

Semplici sensi e non rigonfi e vani;

 

Qui aperto splende il bel Lombardo cuore.

 

Né tu brilli qui men, che al mondo sei

 

Quel che ai fior la rugiada, all’erbe i fiori,

 

Del sorriso del ciel immagin vera,

 

Sesso miglior, che amabil regni e l’uomo,

 

Mentre ei sogna l’impero, tu col blando

 

Di due luci poter allacci e guidi

 

In roseo vinto non solubil nodo.

 

Tu freno a lui, nobile sprone, e degna

 

Spesso cagion di sue più chiare imprese.

 

Deh! Tu che il puoi nei maschi petti mai

 

Dormir non lascia e anneghittir virtude.

 

Sien gradi al don de’ tuoi pudichi affetti

 

Timor dei Numi, umano cor, gentile

 

Fervido zelo delle sante muse,

 

Studio di bene e carità di patria…

 

-Lodovico   Di   Breme-

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