LARA
martedì, 21 dicembre 2010
LARA
L’imboscata. . = . Il
popolo si riversava nella via [anno 1905: la prima rivoluzione]. Una vera
fiumana umana. Visi, visi e visi, paltò d’inverno imbottiti di pelo d’agnello,
vecchi, studentesse e bambini, studenti dell’istituto ferroviario in uniforme,
operai del parco tranviario e della centrale telefonica in stivali più alti del
ginocchio e giubbe di cuoio, ginnasiali e studenti universitari. Per un certo
tempo cantarono la Varsavjanka, e Voi, caduti come vittime e la Marsigliese,
ma, d’un tratto, l’uomo che il testa al corteo camminava all’indietro e
dirigeva il coro agitando una Kubanka stretta in pugno, se la cacciò in testa
cessando d’intonare il canto e, volta la schiena al corteo, si mise ad
ascoltare ciò che dicevano gli organizzatori che gli camminavano a fianco. Il
canto allora si frastagliò, s’interruppe e si udì solo il passo frusciante
dell’immensa folla sul selciato gelato. Qualche simpatizzante aveva avvertito
gli organizzatori del corteo che più in là i cosacchi aspettavano i
dimostranti. Nella vicina farmacia, per telefono avevano avvertito
dell’imboscata. Ebbene, dicevano gli organizzatori, la cosa principale è il
sangue freddo e non perdere la testa. Bisogna occupare subito il primo edificio
pubblico che incontriamo sulla strada, comunicare alla gente il pericolo che ci
minaccia e disperderci alla spicciolata. Discussero quale fosse il luogo più
adatto da occupare. Alcuni proponevano la Società degli agenti di commercio,
altri l’Istituto tecnico superiore, altri ancora l’Istituto corrispondenti
stranieri. Mentre ancora si discuteva, si profilò l’angolo di un edificio
statale. Anche questo era una scuola e come rifugio poteva servire non peggio
degli altri. Quando vi giunsero, i capi salirono sul poggiolo semicircolare
dell’ingresso e a gesti fermarono la testa del corteo. Le porte a più battenti
dell’entrata si aprirono e l’intero corteo cominciò a riversarsi nel vestibolo,
pelliccia dopo pelliccia, berretto dopo berretto, e a salire la scalinata.
Nell’aula magna, nell’aula magna! Gridavano dal fondo voci isolate, ma la massa
continuava a irrompere, dilagando per i corridoi e le classi. Quando infine si
riuscì a richiamarla e tutti furono sistemati a sedere, i dirigenti tentarono a
più riprese di dar notizia dell’imboscata che li attendeva più avanti. Ma
nessuno stava a sentire. La sosta in quel luogo chiuso era stata intesa come un
invito a un comizio improvvisato, cui fu dato subito inizio. Dopo la lunga
marcia e i canti, tutti avevano voglia di restare per un po’ seduti in
silenzio; e che adesso qualcun altro si sfiatasse e si sgolasse per loro. Tutti
presi dal piacere del riposo, rimanevano indifferenti alle insignificanti
divergenze di coloro che parlavano e che erano quasi in tutto solidali gli uni
con gli altri. Perciò il maggior successo arrise all’oratore meno felice, che
non stancò l’uditorio richiedendo attenzione. Ogni sua parola fu sottolineata
da un ruggito di consenso e nessuno si lamentò che il discorso fosse soffocato
dal baccano delle approvazioni. Si affrettavano per impazienza a essere
d’accordo con lui, gridavano vergogna, fecero un telegramma di protesta, poi, a
un tratto, annoiati dalla sua voce monotona, si alzarono tutti insieme e,
dimenticandolo completamente, berretto dopo berretto, fila dopo fila, discesero
in folla la scalinata e si riversarono in strada. La dimostrazione continuava.
Durante il comizio, aveva cominciato a nevicare. Il selciato era bianco e la
neve cadeva sempre più fitta. Quando i dragoni li caricarono, nelle ultime file
da principio non se ne ebbe sentore. Poi, all’improvviso, in cima al corteo si
levò un clamore crescente, come quando una folla grida urrà. Urla di aiuto e
assassini e molte altre si fusero indistintamente. Quasi nello stesso istante,
sull’onda di quel frastuono, nello stretto varco apertosi tra la folla che
scartava ai lati, passarono irruenti e silenziosi i musi e le criniere dei
cavalli e i cavalieri con le sciabole mulinanti. Il plotone passò al galoppo,
fece dietrofront, si riordinò e ripiombò alle spalle del corteo. E il massacro
cominciò. Dopo pochi minuti la via era quasi deserta. La gente correva
sperdendosi nei vicoli. Aveva quasi smesso di nevicare. La sera era nitida come
un disegno a carboncino. A un tratto il sole, che tramontava là, oltre le case,
apparve dietro una cantonata e sembrò additare tutto quello che di rosso era
nella strada: i berretti scarlatti dei dragoni, il panno di una bandiera rossa
abbattuta, e le tracce di sangue che si allungavano sulla neve in rivoli e
gocce rossastre.
Incredibile. . = . Pensate che tempi sono questi! E io e voi li viviamo! Cose tanto incredibili accadono solo una volta nell’eternità. Pensate: alla Russia intera è stato strappato via il tetto, e noi con tutto il popolo ci siamo trovati di colpo allo scoperto, sotto il cielo. E non c’è nessuno che possa spiarci. La libertà! La vera libertà, non quella a parole, non quella delle rivendicazioni, ma una libertà caduta dal cielo, superiore a ogni aspettativa. E’ una libertà ottenuta per caso, per un malinteso. E come tutti si sentono grandi nel loro disorientamento! L’avete notato? Come se ognuno fosse appresso da se stesso, da una natura eroica rivelatasi in lui. Ieri ho assistito a un comizio notturno. Uno spettacolo straordinario. La Russia, la nostra Russia si è mossa, non ce la faceva più a star ferma; cammina e non si stanca di camminare, parla e non si stanca di parlare. E non è nemmeno che parlino solo gli uomini. Gli alberi e le stelle si sono incontrati e discorrono, i fiori notturni filosofeggiano e le case di pietra comiziano. Qualcosa di evangelico, non è vero? Come al tempo degli apostoli. Ricordate in Paolo? Parlate le lingue e profetate. Pregate perché vi sia dato il dono dell’interpretazione. Gli alberi e le stelle a comizio sono cose che capisco. So quello che volete dire. E’ successo anche a me. Una metà di tutto questo l’ha fatta la guerra, il resto la rivoluzione. La guerra è stata un’interruzione artificiale della vita, come se l’esistenza si potesse momentaneamente rimandare (che assurdità!). La rivoluzione è scoppiata quasi suo malgrado, come un sospiro troppo a lungo trattenuto. Ognuno si è rianimato, è rinato; dappertutto trasformazioni, rivolgimenti. Si potrebbe dire che in ciascuno sono avvenute due rivoluzioni: una propria, individuale, e l’altra generale. Mi sembra che il socialismo sia un mare nel quale devono confluire come rivoli tutte queste singole rivoluzioni individuali, il mare della vita, il mare dell’originalità di ognuno. Il mare della vita, sicuro, di quella vita che si può vedere nei quadri, della vita portata al livello del genio, creativamente arricchita. E adesso gli uomini hanno deciso di non sperimentarla più nei libri, ma su se stessi, non nella astrazione, ma nella pratica. Dopo un breve imbarazzante silenzio, riprese a parlare: allo sbaraglio, quasi a caso.
Dudorov. . = . Quando da ragazzo era stato espulso dal ginnasio per aver partecipato alla preparazione di un’evasione politica, per un certo tempo aveva vagabondato da un istituto all’altro, ma alla fine era approdato al porto della classicità. In ritardo rispetto ai compagni, negli anni di guerra aveva terminato l’università, prendendo due incarichi, in storia russa e in storia universale. Per la prima, aveva scritto qualcosa sulla politica agraria di Ivan il Terribile, e per la seconda uno studio su Saint-Just. Ora ragionava cortesemente di tutto con una voce bassa e come raffreddata, guardando con aria sognate un punto fisso, senza abbassare né alzare gli occhi, come si parla nelle conferenze. Verso la fine della serata, quando irruppe, aggressiva come sempre, Sura Schlesinger, e tutti già accaldati gridavano a gara, Innokentij, al quale Jurij Andrèevic aveva sempre dato del voi fin dagli anni di scuola, domandò varie volte: Avete letto La guerra e l’universo e Il flauto di vertebre? Jurij Andrèevic gli aveva già detto che cosa ne pensava, ma Dudorov non aveva udito perché la discussione si era fatta generale e, dopo un po’, tornò a domandare: Avete letto Il flauto di vertebre e l’uomo? Vi ho già risposto Innokentij. Non è colpa mia se non avete sentito. Ma ve lo dirò un’altra volta. Majakovskij [il poeta della rivoluzione dell'ottobre 1917] mi è sempre piaciuto. E’ come una continuazione di Dostoevskij. O, meglio, è una lirica scritta da qualcuno dei suoi personaggi più inquieti, i giovani, come Ippolìt, Raskòl’nikov o il protagonista de L’adolescente. Che Talento travolgente! Come riesce a dire tutto, una volta per sempre, in modo implacabile e assolutamente coerente! E, soprattutto, con che audacia e che slancio scaraventa le cose in faccia alla società e anche più lontano, nello spazio!
Inevitabile. . = . Signori, lasciatemi dire due parole. Ci sovrasta qualcosa di mai visto, di mai avvenuto sinora. Ecco il mio augurio, prima che ci caschi addosso. Quando succederà, voglia Iddio che, non ci perdiamo fra noi e che neppure ci perdiamo d’animo. Gògocka, aspettate a gridare evviva. Non ho ancora finito. Smettete di chiacchierare e state a sentire. In questo terzo anno di guerra [prima guerra mondiale] nel popolo si è formata la convinzione che presto o tardi il confine tra il fronte e il resto del paese sparirà, il mare di sangue raggiungerà ciascuno e sommergerà anche chi, prevedendolo, si era messo al riparo. La rivoluzione è appunto questa inondazione. In quei giorni vi potrà sembrare, come a noi in guerra, che la vita si sia arrestata, che quanto c’è di personale non esista più, e che al mondo non succeda più nulla, solo uccidere e morire. Ma se sopravviveremo fino a quando si scriveranno le memorie di quest’epoca e le leggeremo, ci persuaderemo che in questi cinque o dieci anni abbiamo vissuto più che non altri in un intero secolo. Io non so se sarà il popolo stesso a sollevarsi e a marciare compatto o se tutto si farà in suo nome. Avvenimenti di tale portata non hanno bisogno di dimostrazioni drammatiche. Ma anche senza dimostrazioni, io ci credo lo stesso. E’ meschino frugare nelle cause degli eventi ciclopici. Non ne hanno. Le liti domestiche hanno una propria genesi: dopo essersi presi per i capelli e aver rotto le stoviglie, ci si sforza di capire chi ha cominciato. Tutto ciò che è veramente grande, non ha invece principio, come l’universo. A un tratto ce lo troviamo accanto, senza che abbia avuto un’origine, come se ci fosse sempre stato o fosse caduto dal cielo. Anch’io penso che la Russia sia destinata a diventare il primo regno del socialismo da quando esiste il mondo. Quando ciò si compirà, ne rimarremo a lungo storditi e, riavendoci, non ricupereremo più parte della memoria perduta. Avremo dimenticato che cosa c’era prima e non cercheremo di spiegare l’inaudito. L’ordine che subentrerà ci sarà intorno abituale come un bosco all’orizzonte o delle nubi sopra la testa. Ci circonderà da ogni parte. Non ci sarà nient’altro.
Geniale. . = . Il dottore trasse dalla tasca della giacca il giornale e lo porse al suocero, dicendo: Avete visto? Ammirate, leggete. Senza cambiar positura e continuando a rimuovere la legna nella stufa con un piccolo attizzatoio, Jurij Andrèevic cominciò a parlare tra sé ad alta voce. Che operazione d’alta chirurgia! Prendere e asportare via d’un colpo, così artisticamente il vecchio fetido tumore! Una così semplice, inequivocabile condanna di una secolare ingiustizia abituata a ricevere inchini, riverenze e ogni sorta di omaggi. E, nel modo di portare fino in fondo le cose, senza esitazione, c’è un che della nostra tradizione nazionale, di avito e di familiare. Qualcosa della luce senza compromessi di Puskin, della inflessibile fedeltà ai fatti di Tolstòj. Puskin! Che cos’hai detto? Aspetta. Fammi finire. Non posso mica leggere e ascoltare nello stesso tempo, lo interrompeva Aleksàndr Aleksàndrovic, credendo che Jurij Andrèevic si rivolgesse a lui con quel monologo sotto il suo naso. Ma qual è la cosa più geniale? Se qualcuno avesse ricevuto il compito di creare un mondo nuovo, di cominciare una nuova era, prima di tutto avrebbe avuto bisogno di uno spazio pulito. Avrebbe atteso che i vecchi secoli terminassero, prima di mettersi a edificarne di nuovi, avrebbe avuto bisogno di una cifra tonda, di un a capo, di una pagina vergine. E invece, ecco, guardate! Questa cosa mai accaduta, questo prodigio della storia, questa rivelazione viene scaraventata nel fitto stesso della quotidianità che continua e senza alcun riguardo per lei. Non è cominciata dal principio, ma dalla metà, senza una data scelta in anticipo, il primo giorno che capita, in mezzo ai tram che percorrono la città. Qui è la maggior genialità. Così inopportuno e intempestivo può essere solo ciò che è grande.
L’eroina. . = . Mosca stesa lì sotto e sperduta in lontananza, la città dove Jurij era nato e aveva vissuto metà delle proprie vicende, Mosca sembrava loro non il luogo di quegli avvenimenti, ma la principale eroina di un lungo romanzo al cui termine si erano ormai avvicinati. Benché il sereno e la libertà attesi dopo la guerra non fossero venuti insieme alla vittoria, come si pensava, questo non aveva importanza: il preannuncio della libertà era nell’aria, in quegli anni del dopoguerra [seconda guerra mondiale], e ne costituiva l’unico contenuto storico. Agli amici ormai invecchiati, seduti presso la finestra, pareva che quella libertà dell’anima fosse giunta, che proprio quella sera il futuro si fosse tangibilmente calato in quelle vie, là sotto, che loro stessi fossero entrati nel futuro e ivi si trovassero d’ora in poi. Una gioiosa, commossa sicurezza per quella sacra città e per tutta la terra, per i personaggi di questa storia giunti fino a quella sera e per i loro figli, li penetrò e li afferrò con una sommessa musica di felicità, che si effondeva lontano, tutt’attorno. -Boris Pasternàk : Il dottor Zivago. (Intima sintesi fantastica di uno studio a… fiuto).
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