ACCENNO

martedì, 30 novembre 2010

ACCENNO

Anche chi ha appena sentito parlare di Antonio Gramsci e lo colloca a malapena tra i leggendari leader storici del comunismo, o della galleria dei martiri dell’antifascismo, non si deve sentire intimidito: le lettere parlano da sole e parlano un linguaggio semplice, accessibile a chiunque abbia mente e cuore, il giovane e l’anziano, chi ha fatto appena la terza elementare e chi ha una laurea. In primo piano sta una tragedia personale. Sono, quasi tutte, lettere familiari. Le prime portano la data del novembre 1926 allorquando Antonio Gramsci, segretario del Pc d’Italia, fu arrestato nonostante non avesse violato alcuna legge e fosse un parlamentare. Arrestato, confinato, processato, condannato a venti anni di reclusione. A volte, dibattendo di questa o quella questione ( le razze, ad esempio ) Antonio ne approfitta per fornire uno spaccato autobiografico, persino da albero genealogico: Io stesso non ho razza; mio padre è di origine albanese recente ( la famiglia scappò dall’Epiro dopo o durante la guerra del 1821 e si italianizzò rapidamente ); mia nonna era una Gonzales e discendeva da qualche famiglia italo-spagnola dell’Italia meridionale ( come ne rimasero tante dopo la cessazione del dominio spagnolo ); mia madre è sarda per il padre e per la madre, e la Sardegna fu unita al Piemonte solo nel 1847. Tuttavia la mia cultura è italiana fondamentalmente e questo è il mio mondo. Quanto la si sente l’italianità di Gramsci anche in queste sue lettere! Il triplice e quadruplice provinciale che da Cagliari arriva a Torino nel 1911 si nutre della cultura italiana da Dante a Machiavelli a Croce. Non è un provinciale, a vero dire; provinciale oltreché tirannico è il regime che l’ha condannato a venti anni di reclusione soltanto, letteralmente, perché egli è il capo dei comunisti. Non è un nazionalista, il suo orizzonte, il suo mondo sono internazionalisti. La cultura, la lingua francese, inglese, tedesca, russa lo interessano allo stesso modo. Ma i legami di Gramsci con il mondo popolare italiano, operaio e contadino, si vedono attraverso quelle osservazioni improvvise che gli viene fatto di inserire nel corso, nel corpo, di questa o quella lettera. Così come gli torna a mente e sulla pagina spesso la povertà in cui è vissuto e cresciuto, la durezza delle condizioni economiche in cui ha passato il suo garzonato studentesco e universitario, dal ginnasio di Santu Lussurgiu al liceo Dettori di Cagliari, alla facoltà di Lettere dell’Università di Torino. -Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, accenno tratto dalla prefazione di Paolo Spriano.-

ITALIA MIA
Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno
a le piaghe mortali
che nel bel corpo tuo sì spesse veggio,
piacermi almen che’ miei sospir sian quali
spera ‘l Tevero e l’Arno
e ‘l Po, dove doglioso e grave or seggio.
Rettor del cielo, io cheggio
che la pietà che ti condusse in terra
ti colga al tuo diletto almo paese:
vedi, signor cortese,
di che lievi cagion che crudel guerra,
e i cor, ch’endura e serra
Marte superbo e fero,
apri tu, Padre, e ‘ntenerisci e snoda;
ivi fa che ‘l tuo vero,
qual io mi sia, per la mia lingua s’oda.
Voi cui fortuna à posto in mano il freno
de le belle contrade,
di che nulla pietà par che vi stringa,
che fan qui tante pellegrine spade?
Perché ‘l verde terreno
del barbarico sangue si depinga?
Vano error vi lusinga;
poco vedete e parvi veder molto,
ché ‘n cor venale amor cercate o fede:
qual più gente possede,
colui è più da suoi nemici avvolto.
O diluvio raccolto
di che deserti strani
per inondar i nostri dolci campi!
Se da le proprie mani
questo n’avvene, or chi fia che ne scampi?
Ben provvide Natura al nostro stato,
quando de l’Alpi schermo
pose fra noi la tedesca rabbia;
ma ‘l desir cieco encontra ‘l suo ben fermo
s’è poi tanto ingegnato,
ch’al corpo sano à procurato scabbia.
Or dentro ad una gabbia
fiere selvagge e mansuete gragge
s’annidan sì che sempre il miglior geme;
et è questo del seme,
per più dolor, del popol senza legge,
al qual come si legge,
Mario aperse sì ‘l fianco
che memoria de l’opra anco non langue,
quando assetato e stanco
non più bevve del fiume acqua che sangue.
Cesare taccio, che per ogni piaggia
fece l’erbe sanguigne
di lor vene ove ‘l nostro ferro mise.
Or par, non so per che stelle maligne,
che ‘l cielo in odio n’aggia:
vostra mercé, cui tanto si commise
vostre voglie divise
guastan del mondo la più bella parte.
Qual colpa, qual giudicio o qual destino
fastidire il vicino
povero, e le fortune afflitte e sparte
perseguire, e ‘n disparte
cercar gente e gradire
che sparga ‘l sangue e venda l’alma a prezzo?
Io parlo per ver dire,
non per odio d’altrui né per disprezzo.
Né v’accorgete ancor per tante prove
del bavarico inganno
ch’alzandoil dito colla morte scherza?
Peggio è lo strazio, al mio parer, che ‘l danno.
Ma ‘l vostro sangue piove
più largamente, ch’altr’ira vi sferza.
Da la mattina a terza
di voi pensate e vedrete come
tien caro altrui chi tien sé così vile.
Latin sangue gentile,
sgombra da te queste dannose some;
non far idolo un nome
vano, senza soggetto;
ché ‘l furor de lassù, gente ritrosa,
vincerne d’intelletto,
peccato è nostro e non natural cosa.
Non è questo ‘l terren ch’i’ toccai pria?
Non è questo il mio nido,
ove nudrito fui sì dolcemente?
Non è questa la patria in ch’io mi fido,
madre benigna e pia,
che copre l’un e l’altro mio parente?
Per Dio, questo la mente
talor vi mova, e con pietà guardate
le legrime del popol doloroso,
che sol da voi riposo
dopo Dio spera: e pur che voi mostriate
segno alcun di pietate
vertù contra furore
prenderà l’arme e fia ‘l combatter corto:
ché l’antico valore
ne l’italici cor non è ancor morto.
Signor, mirate come ‘l tempo vola
e sì come la vita
fugge e la morte n’è sovra le spalle.
Voi siete or qui, pensate a la partita:
ché l’alma ignuda e sola
convien ch’arrive a quel dubbioso calle.
Al passar questa valle
pacciarvi porre giù l’odio e lo sdegno,
ventri contrari a la vita serena,
e quel che ‘n altrui pena
tempo si spende, in qualche atto più degno
o di mano o d’ingegno,
in qualche bella lode,
in qualche onesto studio si converta;
così qua giù si gode
e la strada del ciel si trova aperta.
Canzone, io t’ammonisco
che tua ragion cortesemente dica
perché tra gente altera ir ti convene,
e le voglie sono piene
già de l’usanza pessima et antica,
del ver sempre nemica.
Proverai tua ventura
tra magnanimi pochi a chi ‘l ben piace;
di’ lor: “ Chi m’assicura?
I’ vo gridando: Pace, pace, pace “.
-Francesco Petrarca-
(1304 – 1374 )


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