LO SCUDO

 

venerdì, 29 ottobre 2010

LO SCUDO

 

Perse, ascolta la giustizia e non alimentare la Prepotenza; la prepotenza è dannosa all’uomo debole; nemmeno il grande facilmente la può sopportare, anzi egli stesso rimane oppresso e va incontro a sventure. Migliore è l’altra strada, verso la giustizia: la giustizia al termine del suo corso vince la prepotenza, e solo soffrendo lo stolto impara. Immediatamente insieme con le tortuose sentenze corre Orcos e si leva l’alta protesta della giustizia, trascinata dove gli uomini divoratori di doni la conducono e giudicano le cause con ambigue sentenze. Essa li segue piangendo per la città e per le dimore dei popoli, vestita di brume e portando male agli uomini che la scacciano e male la esercitarono. Ai giudici, poi, che impartiscono la vera giustizia ai cittadini e ai forestieri, che non trasgrediscono il giusto, a quelli la città fiorisce, e i popoli sono in essa fiorenti; la pace, nutrice di giovani, è sulla terra, né Zeus dall’ampia pupilla predispone mai per loro la guerra luttuosa. Agli uomini giusti non s’accompagnano neppure la fame e la sventura, bensì essi godono nelle feste dei frutti amorosamente curati. A loro la terra fornisce mezzi copiosi: le querce sui monti portano ghiande sulla cima, nel mezzo del tronco le api brulicano, le lanose pecore sono oppresse dal vello, le donne generano figli simili ai padri; essi fioriscono di beni senza fine, né debbono salpare sulle navi: bastano i frutti della fertile terra. A quelli, invece, che hanno in cuore malvagia prepotenza e opere ingiuste, a costoro il Cronide Zeus dall’ampia pupilla assegna la pena. Spesso infatti un’intera città è partecipe della punizione di un uomo malvagio, reo che progetta empi disegni, e il Cronide manda dal cielo grandi malanni: la fame insieme alla peste, e la gente muore. Le donne non partoriscono più, le casate vanno in rovina per volere di Zeus che sta sull’Olimpo; altre volte egli annienta un loro possente esercito, oppure, vindice, il Cronide ne distrugge le mura e le navi sul mare. (tratto da Le opere e i giorni. -Giustizia e ingiustizia-. Esiodo).

 

 

LA GINESTRA

 

O IL FIORE DEL DESERTO

 

(E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce. GIOVANNI, III, 19).

 

Qui sull’arida schiena

 

del formidabil monte

 

sterminator Vesevo,

 

la qual nell’altro allegra arbor né fiore,

 

tuoi cespi solitari intorno spargi,

 

odorata ginestra,

 

contenta dei deserti. Anco ti vidi

 

de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade

 

che cingon la cittade

 

la qual fu donna de’ mortali un tempo,

 

e del perduto impero

 

par che col grave e taciturno aspetto

 

faccian fede e ricordo al passeggero.

 

Or ti riveggo in questo suol, di tristi

 

lochi e dal mondo abbandonati amante,

 

e d’afflitte fortune ognor compagna.

 

Questi campi cosparsi

 

di ceneri infeconde, e ricoperti

 

dell’impietrata lava,

 

che sotto i passi al peregrin risona;

 

dove s’annida e si contorce al sole

 

la serpe, e dove al noto

 

cavernoso covil torna il coniglio;

 

fur liete ville e colti,

 

e biondeggiar di spiche, e risonaro

 

di muggito d’armenti;

 

fur giardini e palagi,

 

agli ozi de’ potenti

 

gradito ospizio; e fur città famose

 

che coi torrenti suoi l’altero monte

 

dall’ignea bocca fulminando oppresse

 

con gli abitanti insieme. Or tutto intorno

 

una ruina involve,

 

dove tu siedi, o fior gentile, e quasi

 

i danni altrui commiserando, al cielo

 

di dolcissimo odor mandi un profumo,

 

che il deserto consola. A queste piagge

 

venga colui che d’esaltar con lode

 

il nostro stato ha in uso, e vegga quanto

 

è il gener nostro in cura

 

all’amante natura. E la possanza

 

qui con giusta misura

 

anco estimar potrà dell’uman seme,

 

cui la dura nutrice, ov’ei men teme,

 

con lieve moto in un momento annulla

 

in parte, e può con moti

 

poco men lievi ancor subitamente

 

annichilare in tutto.

 

Dipinte in queste rive

 

son dell’umana gente

 

le magnifiche sorti e progressive.

 

Qui mira e qui ti specchia,

 

secol superbo e sciocco,

 

che il calle insino allora

 

dal risorto pensier segnato innanti

 

abbandonasti, e volti addietro i passi,

 

del ritornar ti vanti,

 

e procedere il chiami.

 

Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,

 

di cui lor sorte rea padre ti fece,

 

vanno adulando, ancora

 

ch’a ludibrio talora

 

t’abbian fra se. Non io

 

con tal vergogna scenderò sotterra;

 

ma il disprezzo più tosto che si serra

 

di te nel petto mio,

 

mostrato avrò quanto si possa aperto:

 

bench’io sappia che abblio

 

preme chi troppo all’età propria increbbe.

 

Di questo mal, che teco

 

mi fia comune, assai finor mi rido.

 

Libertà vai sognando, e servo a un tempo

 

vuoi di novo il pensiero,

 

sol per cui risorgemmo

 

della barbarie in parte, e per cui solo

 

si cresce in civiltà, che sola in meglio

 

guida i pubblici fati.

 

Così ti spiacque il vero

 

dell’aspra sorte e del depresso loco

 

che la natura ci diè. Per questo il tergo

 

vigliaccamente rivolgesti al lume

 

che il fe’ palese: e, fuggitivo, appelli

 

vil chi lui segue, e solo

 

magnanimo colui

 

che se schernendo o gli altri, astuto o folle,

 

fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

 

Uom di povero stato e membra inferme

 

che sia dell’alma generoso ed alto,

 

non chiama se né stima

 

ricco d’or né gagliardo,

 

e di splendida vita o di valente

 

persona infra la gente

 

non fa risibil mostra;

 

ma se di forza e di tesor mendico

 

lascia parer senza vergogna, e noma

 

parlando, apertamente, e di sue cose

 

fa stima al vero uguale.

 

Magnanimo animale

 

non credo io già, ma stolto,

 

quel che nato a perir, nutrito in pene,

 

dice, a goder son fatto,

 

e di fetido orgoglio

 

empie le carte, eccelsi fati e nove

 

felicità, quali il ciel tutto ignora,

 

non pur quest’orbe, promettendo in terra

 

a popoli che un’onda

 

di mar commosso, un fiato

 

d’aura maligna, un sotterraneo crollo

 

distrugge sì che avanza

 

a gran pena di lor la rimembranza.

 

Nobil natura è quella

 

che a sollevar s’ardisce

 

agli occhi mortali incontra

 

al comun fato, e che con franca lingua,

 

nulla al ver detraendo,

 

confessa il mal che ci fu dato in sorte,

 

e in basso stato e frale;

 

quella che grande e forte

 

mostra se nel soffrir, né gli odii e l’ire

 

fraterne, ancor più gravi

 

d’ogni altro danno, accresce

 

alle miserie sue, l’uomo incolpando

 

del suo dolor, ma d° la colpa a quella

 

che veramente è rea, che de’ mortali

 

madre è di parto e di voler matrigna.

 

Costei chiama inimica; e incontro a questa

 

congiunta esser pensando,

 

siccome è il vero, ed ordinata in pria

 

l’umana compagnia,

 

tutti fra se confederati estima

 

gli uomini, e tutti abbraccia

 

con vero amor, porgendo

 

valida e pronta ed aspettando aita

 

negli alterni perigli e nelle angosce

 

della guerra comune. Ed alle offese

 

dell’uomo armar la destra, e laccio porre

 

al vicino ed inciampo,

 

stolto crede così qual fora in campo

 

cinto d’oste contraria, in sul più vivo

 

incalzar degli assalti,

 

gl’inimici obbliando, acerbe gare

 

imprender con gli amici,

 

e sparger fuga e fulminar col brando

 

infra i propri guerrieri.

 

Così fatti pensieri

 

quando fien, come fur, palesi al volgo,

 

e quell’orror che primo

 

contra l’empia natura

 

strinse i mortali in social catena,

 

fia ricondotto in parte

 

da verace saper, l’onesto e il retto

 

conversar cittadino,

 

e giustizia e pietade, altra radice

 

avranno allor che non superbe fole,

 

ove fondata probità del volgo

 

così star suole in piede

 

quale star può quel ch’ha in error la sede.

 

Sovente in queste rive,

 

che, desolate, a bruno

 

veste il flutto indurato, e par che ondeggi,

 

seggo la notte; e sulla mesta landa

 

in purissimo azzurro

 

veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,

 

cui di lontan fa specchio

 

il mare, e tutto di scintille in giro

 

per lo voto seren brillare il mondo.

 

E poi che gli occhi a quelle luci appunto,

 

ch’a lor sembrano un punto,

 

e sono immense, in guisa

 

che un punto a petto a lor son terra e mare

 

veracemente; a cui

 

l’uomo non pur, ma questo

 

globo ove l’uomo è nulla,

 

sconosciuto è del tutto; e quando miro

 

quegli ancor più senz’alcun fin remoti

 

nodi quasi di stelle

 

ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo

 

e non la terra sol, ma tutte in uno,

 

del numero infinite e della mole,

 

con l’aureo sole insiem, le nostre stelle

 

o sono ignote, o così paion come

 

essi alla terra, un punto

 

di luce nebulosa; al pensier mio

 

che sembri allora, o prole

 

dell’uomo? E rimembrando

 

il tuo stato quaggiù, di cui fa segno

 

il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,

 

che te signora e fine

 

credi tu data al Tutto, e quante volte

 

favoleggiar ti piacque, in questo oscuro

 

granel di sabbia, il qual di terra ha nome.

 

Per tua cagion, dell’universe cose

 

scender gli autori, e conversar sovente

 

co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi

 

sogni rinnovellando, ai saggi insulta

 

fin la presente età, che in conoscenza

 

ed in civil costume

 

sembra tutte avanzar; qual moto allora,

 

mortal prole infelice, o qual pensiero

 

verso te finalmente il cor m’assale?

 

Non so se il riso o la pietà prevale.

 

Come d’arbor cadendo un picciol pomo,

 

cui là nel tardo autunno

 

maturità senz’altra forza atterra,

 

d’un popol di formiche i dolci alberghi,

 

cavati in molle gleba

 

con gran lavoro, e l’opre

 

e le ricchezze che adunate a prova

 

con lungo affaticar l’assidua gente

 

avea provvidamente al tempo estivo,

 

schiaccia, diserta e copre

 

in un punto; così d’alto piombando,

 

dall’utero tonante

 

scagliata al ciel profondo,

 

di ceneri e di pomici e di sassi

 

notte e ruina, infusa

 

di bollenti ruscelli,

 

o pel montano fianco

 

furiosa tra l’erba

 

di liquefatti massi

 

e di metalli e d’infuocata arena

 

scendendo immensa piena,

 

le cittadi che il mar là sull’estremo

 

lido aspergea, confuse

 

e infranse e ricoperse

 

in pochi istanti: onde su quelle or pasce

 

la capra, e città nove

 

sorgon dall’altra banda, a cui sgabello

 

son le sepolte, e le prostrate mura

 

l’arduo monte al suo piè quasi caplesta.

 

Non ha natura al seme

 

dell’uom più stima o cura

 

che alla formica: e se più rara in quello

 

che nell’altra è la strage,

 

non avvien ciò d’altronde

 

fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.

 

Ben mille ed ottocento

 

anni varcàr poi che spariro, oppressi

 

dall’ignea forza, i popolari seggi,

 

e il villanello intento

 

ai vigneti, che a stento in questi campi

 

nutre la morta zolla e incenerita,

 

ancor leva lo sguardo

 

sospettoso alla vetta

 

fatal, che nulla mai fatta più mite

 

ancor siede tremenda, ancor minaccia

 

a lui strage ed ai figli ed agli averi

 

lor poverelli. E spesso

 

il meschino in sul tetto

 

dell’ostel villereccio, alla vagante

 

aura giacendo tutta la notte insonne,

 

e balzando più volte, esplora il corso

 

del temuto bollor, che si riversa

 

dall’inesausto grembo

 

sull’arenoso dorso, a cui riluce

 

di Capri la marina

 

e di Napoli il porto e Mergellina.

 

E se appressar lo vede, o se nel cupo

 

del domestico pozzo ode mai l’acqua

 

fervendo gorgogliar, desta i figlioli,

 

desta la moglie in fretta, e via, con quanto

 

di lor cose rapir posson, fuggendo,

 

vede lontan l’usato

 

suo nido, e il picciol campo,

 

che gli fu dalla fame unico schermo,

 

preda al flutto rovente,

 

che crepitando giunge, e inesorato

 

durabilmente sovra quei si spiega.

 

Torna al celeste raggio

 

dopo l’antica abblivion l’estinta

 

Pompei, come sepolto

 

scheletro, cui di terra

 

avarizia o pietà rende all’aperto;

 

e dal deserto foro

 

diritto enfra le file

 

dei mozzi colonnati il peregrino

 

lunge contempla il bipartito giogo

 

e la cresta fumante,

 

che alla sparsa ruina ancor minaccia.

 

E nell’orror della secreta notte

 

per li cavui teatri,

 

per li templi deformi, e per le rotte

 

case, ove i parti il pipistrello asconde,

 

come sinistra face

 

che per voti palagi atra s’aggiri,

 

corre il baglior della funerea lava,

 

che di lontan per l’ombre

 

rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.

 

Così, dell’uomo ignara e dell’etadi

 

ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno

 

dopo gli avi i nepoti,

 

sta natura ognor verde, anzi procede

 

per sì lungo cammino

 

che sembra star. Caggiono i regni intanto,

 

passan genti e linguaggi: ella nol vede:

 

e l’uom d’eternità s’arroga il vanto.

 

E tu, lenta ginestra,

 

che di selve odorate

 

queste campagne dispogliate adorni,

 

anche tu presto alla crudel possanza

 

soccomberai del sotterraneo foco,

 

che ritornando al loco

 

già noto, stenderà l’avaro lembo

 

su tue molli foreste. E piegherai

 

sotto il fascio mortal non renitente

 

il tuo capo innocente:

 

ma non piegato insino allora indarno

 

codardamente supplicando innanzi

 

al futuro oppressor; ma non eretto

 

con forsennato orgoglio inver le stelle,

 

né sul deserto, dove

 

e la sede e i natali

 

non per voler ma per fortuna avesti;

 

ma più saggia, ma tanto

 

meno inferma dell’uom, quanto le frali

 

tue stirpi non credesti

 

o dal fato o da te fatte immortali.

 

-Giacomo Leopardi-

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