A DISPOSIZIONE DEL PARTITO

sabato, 23 ottobre 2010

A DISPOSIZIONE DEL PARTITO

Venuto l’autunno, a Torino, impossibilitato a dare esami, frequentai, come libero uditore, qualche corso di lettere. Feci così passare anche il Carnevale, finché mi dissi che senza lavoro e con la convinzione di essere un cane sciolto, non potevo continuare. A tagliar corto, a decidere, doveva essere il Partito. Riuscii a far giungere una mia richiesta: mi dicessero che cosa mi restava da fare, perché a Torino rendevo davvero poco. Risposero che il centro mi chiedeva di espatriare. Mi portarono un passaporto svizzero nel quale si erano però dimenticati di scrivere il colore degli occhi. Mia madre, con un primo dubbio sulla perfezione di una organizzazione che avevamo creduto incapace di dimenticanze e di errori, completò il documento, cercando di imitare la scrittura degli altri dati. Con quello partii per Parigi. Per me era una svolta importante. Non mi ero mai aspettato tanto. Era una cosa che mi faceva più felice che fare il tipografo o il libraio. Più soddisfatto che superare l’esame di maturità e trovarmi all’Università con studenti che non avevano più niente da dirmi e ai quali non sapevo parlare. Si era dissolto anche il gruppo di studenti che aveva dato vita, sul finire del ‘26, a un non numeroso, ma significativo, comitato antifascista. I personaggi non erano molti, ma non erano senza interesse. Lo ricordo perché voglio, con una certa ostinazione, che non si dimentichi come in quell’epoca, sebbene non fossimo guariti dal settarismo, e per quanto ci accingessimo a esperienze nelle quali non sarebbero mancati faziosità ed estremismo, una volontà unitaria e una capacità a stabilire un qualche contatto con gli altri le abbiamo sempre avute. Prima dell’arresto avevo fatto parte, io che ero soltanto uno studente delle scuole medie, di questo comitato antifascista. Ci trovavamo in casa di Fernando De Rosa, socialista, personaggio dalla figura suggestiva: parlava come a fare intendere che non era soltanto uno studente, ma già un uomo adulto e libero. Mi aveva fatto impressione sentirlo dire, con spavalderia: Se sto una notte fuori di casa, mia madre non si spaventa, e non vuole saperne il perché. E così quando fece circolare, durante una riunione, una pistola a due canne che diceva di suo padre e venuta dall’America del Sud. La sua vita fu poi proprio quella di un cospiratore risorgimentale. Recitava un poco, ma quando lo faceva non si travestiva: recitava il suo personaggio. Non credo che fosse la pistola a due canne quella che adoperò per sparare contro il principe ereditario che era andato, per le nozze, a Bruxelles. Ma al principe sparò davvero; fu arrestato, ci fu un processo e penso che il tutto non gli dispiacesse. A me non spiacque di dire che lo avevo conosciuto. Non trovai l’attentato di cattivo gusto. De Rosa non era un comunista ma era sempre meglio di quegli studenti rimasti a Torino che tiravano coriandoli di carnevale alle ragazze. I colpi di rivoltella sparati a Bruxelles ebbero come conseguenza che, per misure precauzionali dato il succedersi delle cerimonie nuziali, venne effettuata la solita retata dei sovversivi. Festeggiai così il fausto evento, in una cella del carcere di Varese. Per una decina di giorni dovetti sopportare da parte di due anarchici le critiche più spietate suggerite soprattutto dal loro desiderio di stare in pace. Non potendo prendersela con De Rosa, perché un anarchico non può parlar male di uno che ha sparato al figlio del re, se la prendevano con i comunisti. Un’abitudine antica alla quale molti di noi rispondono ancora oggi con ingenua meraviglia e con sempre indispettita presunzione. Ce l’avevano con il nostro opportunismo e con me in particolare, perché mi ero permesso di andare inutilmente per due anni in carcere, mentre loro, secondo me assai meno utilmente, se ne erano stati a casa. Imparai a conoscere anche gli anarchici, convinto che nessuna esperienza era da buttar via e soddisfatto nel constatare ancora una volta che i comunisti sono sempre un po’ migliori degli altri. A condizione, aggiungo, che non si rendano noiosi col ripeterlo troppo. Quel De Rosa socialista, in attesa di andare a sparare nel Belgio e poi di andare a combattere fra i primi in Spagna e di morire per la Repubblica, era il perno intorno al quale ruotava il comitato. Ma la ruota era soltanto di parole, perché i personaggi aspettarono a comparire sulla scena molti anni dopo. Geymonat, che allora doveva essere un generico democratico di non so quale sfumatura, mi attraeva perché, presa la laurea in filosofia, studiava matematica, o viceversa. Garosci era liberale. Ho avuto poche occasioni di rincontrarlo: mi ha sempre costretto a dirgli che da ragazzo lo avevo conosciuto, e soprattutto, come liberale; ma non avrei creduto allora che, ogni volta, l’avrei trovato peggiorato. C’era ancora qualcun altro, troppo scialbo o precario da ritornare alla memoria. Veniva anche qualche comunista ad animare un po’ l’ambiente: si facevano delle chiacchiere ma molto di più, forse, non si poteva. Si raccontavano storie antiche di tempi lontani, giacché c’erano vecchi antifascisti, ormai a riposo, dei quali noi ragazzi ci consideravamo gli allievi e un po’ gli eredi; comunque fu un’esperienza non priva di qualche importanza. Era l’ostinazione di una ricerca: stare con gli altri, scuoterli, vedere se si poteva fare qualche cosa insieme. Si organizzò la commemorazione di Piero Gobetti all’Università: un piccolo gruppo, pochi minuti e qualche breve parole. Soprattutto quelli che erano stanchi e non volevano rischiare, dicevano che queste cose erano ragazzate inutili e, peggio, che servivano a Mussolini per trovare pretesti alla sua azione poliziesca. Tuttavia non mi risulta che più severi professori, già collaboratori di Rivoluzione liberale o del Baretti, facessero qualche cosa di più utile. Erano tempi nei quali la viltà si chiamava saggezza e dai maestri di un tempo grandi esempi di carattere non venivano. Lasciavo Torino senza rimpianti e non credevo in nessun modo di disertare. Nelle ultime settimane un fatto nuovo ci aveva rianimato: un corteo spontaneo di centinaia di disoccupati aveva attraversato il centro della città. Ci pareva potesse essere un segnale. Alla fine del ‘30 la crisi mondiale svegliava le masse anche da noi. I comunisti, purtroppo, non c’entravano per niente, ma assenti del tutto non fummo neppure quella volta. Giuliano, nell’andare a scuola si era infilato nel corteo, alla Camera del Lavoro ( ormai sede dei sindacati fascisti ) si era trovato fra i primi, fra quelli che gridavano di più, così lo avevano fermato; il nome di Pajetta gli era valso il primo fermo e si fece il suo primo giorno di prigione. Meditazione su: -Gian Carlo Pajetta, Il ragazzo rosso, Mondadori,1983-

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I BIMBI D'ESTREMADURA
I Bimbi d’Estremadura
vanno scalzi.
Chi gli ha rubato le scarpe?
Li ferisce il caldo e il freddo.
Chi gli ha strappato i vestiti?
La pioggia
gli bagna il letto e il sonno.
Chi demolì la casa?
Non sanno
i nomi delle stelle.
Chi gli chiuse le scuole?
I bimbi d’Estramadura
sono serii.
Chi fu il ladro dei loro giochi?
-Rafael Alberti-

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