DAL CARCERE
domenica, 27 dicembre 2009
DAL CARCERE
Carcere di Milano, 26 dicembre 1927. Carissima Tania, è così passato anche il Santo Natale, che immagino quanto sia stato laborioso per te. In verità, io ho pensato alla sua straordinarietà solo da questo punto di vista, l’unico che mi interessasse. Di notevole non c’è stato che il fatto di una generale tensione degli spiriti vitali in tutto l’ambiente carcerario; il fenomeno poteva essere rilevato già in isvolgimento da tutta una settimana. Ognuno aspettava qualcosa di eccezionale e l’attesa determinava tutta una serie di piccole manifestazioni tipiche, che nell’insieme davano questa espressione di uno slancio di vitalità. Per molti l’eccezione era una porzione di pasta asciutta e un quarto di vino che l’amministrazione passa tre volte all’anno invece della solita minestra: ma che avvenimento importante è questo, tuttavia. Non credere che io me ne diverta o ne rida. L’avrei fatto, forse, prima di aver fatto l’esperienza del carcere. Ma ho visto troppe scene commoventi di detenuti che si mangiavano la loro scodella di minestra con religiosa compunzione, raccogliendo con la mollica di pane anche l’ultima traccia di unto che poteva rimanere attaccata alla terraglia! Un detenuto ha pianto perché in una caserma di carabinieri, dove eravamo di transito, invece della minestra regolamentare fu distribuita solo una doppia razione di pane; era da due anni in carcere e la minestra calda era per lui il suo sangue, la sua vita. Si capisce perché nel Pater noster è stato messo l’accenno al pane quotidiano. Io ho pensato alla tua bontà e alla tua abnegazione, cara Tania. Ma la giornata è trascorsa un po’ come tutte le altre. Forse abbiamo chiacchierato di meno e letto di più. Io ho letto un libro di Brunetière su Balzac, una specie di penso per bambini cattivi. Ma non voglio affliggerti con questo argomento. Invece ti voglio raccontare un episodio quasi natalizio della mia fanciullezza, che ti divertirà e ti darà un tratto caratteristico della vita dalle mie parti. Avevo quattordici anni e facevo la terza ginnasiale a Santu Lussurgiu, un paese distante dal mio circa diciotto chilometri, e dove credo esista ancora un ginnasio comunale in verità molto scalcinato. Con un altro ragazzo, per guadagnare ventiquattr’ore in famiglia, ci mettemmo in istrada a piedi dopopranzo del 23 dicembre invece di aspettare la diligenza del mattino seguente. Cammina, cammina, eravamo circa a metà del viaggio, in un posto completamente deserto e solitario; a sinistra, un centinaio di metri dalla strada, si allungava una fila di pioppi con delle boscaglie di lentischi. Ci spararono un primo colpo di fucile in alto sulla testa; la pallottola fischiò a una decina di metri in alto. Credemmo a un colpo casuale e continuammo tranquilli. Un secondo e un terzo colpo più bassi ci avvertirono subito che eravamo proprio presi di mira e allora ci buttammo nella cunetta, rimanendo appiattati un pezzo. Quando provammo a sollevarci, un altro colpo e così per circa due ore con una dozzina di colpi che ci inseguivano, mentre ci allontanavamo strisciando, ogni volta che tentavamo di ritornare sulla strada. Certamente era una comitiva di buontemponi che voleva divertirsi a spaventarci, ma che bello scherzo, eh? Arrivammo a casa a notte buia, discretamente stanchi e infangati e non raccontammo la storia a nessuno, per non spaventare in famiglia, ma non ci spaventammo gran che, perché alle prossime vacanze di carnevale il viaggio a piedi fu ripetuto senza incidenti di sorta. Ed ecco che ti ho riempito quasi interamente le quattro paginette! Ti abbraccio teneramente. Antonio. Ma la storia è proprio vera; non è affatto una storia di briganti!
DAVANTI AI MIEI
OCCHI
ci sono le sbarre
e il paesaggio del mondo
con le fitte ombre verticali
continua a vivere
per il battito di infiniti cuori.
Gli aguzzi denti
sorridono ad altri denti
mentre l’acqua limpida degli occhi
scende per l’altra acqua
e dentro le membra
risuona lo scricchiolio delle ossa.
Delle calde labbra
e le sensazioni animali
umane vette della felicità
vivono sopra un guanciale.
Vita!
Correre
ma le gambe ferme
lasciano andare i nervi
e nelle orecchie
risuonano parole stanche.
-Renzo Mazzetti, orizzonti, libroitaliano, Ragusa
2001-
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