PALESTINESI
giovedì, 26 novembre 2009
PALESTINESI
C’è una cosa che contraddistingue le donne palestinesi: lo sguardo. Il loro sguardo è allegro e triste, combattente e rassegnato, malinconico e sognatore. Nel mio viaggio ho conosciuto tante donne e ascoltato molti pezzi di vita. C’è la storia d’Ohaila, direttrice del centro antiviolenza Sawa che si è dedicata completamente al lavoro dopo una vita vissuta fra violenze domestiche. Ohaila e’ una donna che ha perso tutto a causa dell’occupazione, che ha subito sulla propria pelle tutta l’aggressività di quegli uomini costretti al silenzio, alle intimidazioni, ai soprusi che ogni giorno la potenza occupante infligge loro… Parlare della questione delle donne in Palestina è estremamente complesso: la situazione che vivono è eterogenea e il loro “pensiero su se stesse” dipende per lo più da dove hanno vissuto e dalla loro età. Infatti, donne come Samar e Amal (direttrici del centro delle donne di Nablus), come Rawda (reduce da otto anni di carcere per aver creato un movimento di protesta contro l’occupazione) o Fathima (che lavora silenziosamente al ministero degli affari delle donne) sono donne forti. Possiedono quella forza che contraddistingue tutte quelle donne che nella prima intifada hanno combattuto a fianco degli uomini contro l’occupazione. È il popolo che ha vinto nella prima Intifada; uomini e donne. Ma per queste donne consce dei propri diritti e di quelli della nazione tutto è cambiato. La seconda Intifada ha portato un’ondata di tradizionalismo nei confronti della figura femminile non indifferente. Questo cambiamento è stato provocato da tanti fattori; innanzi tutto a causa degli ingenti aiuti internazionali che hanno portato ad una “istituzionalizzazione” di tali figure femminili e quindi ad loro un allontanamento dalle “donne di ogni giorno”. Un altro punto fondamentale che ha causato questo cambiamento è l’accrescere della violenza che è scoppiato nella seconda intifada. Improvvisamente la donna, per tradizione, per religione o per “dovere”, ha assunto il ruolo di protettrice del nucleo famigliare. Non solo, il popolo palestinese sa bene che le guerre si vincono anche con la questione demografica; così il corpo e il ruolo della donna in tempo di guerra diventa l’arma contro l’oppressione di un intero popolo. Mi rendo conto che nessun palestinese può definirsi un essere umano libero, ma la situazione di queste donne in tale conflitto è radicalmente più oppressiva e liberticida. Le donne, oltre a subire le violenze dell’occupazione, sono oppresse dalla tradizione che la società impone loro per la sopravvivenza della stessa. Secondo le statistiche pervenute da Women’s study center le donne che hanno subito danni a causa dell’occupazione sono il 99% : di cui il 48% ha subito la distruzione della propria casa, il 10,1% ha perso membri della propria famiglia, il 28,1% ha un membro della propria famiglia in carcere e il 13,3% ha subito danni fisici irreversibili. Pur essendo le donne che subiscono maggiori sofferenze nei conflitti, c’è da dire che legare la lotta di emancipazione femminile a quella di liberazione nazionale è estremamente complesso. Se nella prima intifada le donne hanno avuto un ruolo così preponderante, nella seconda intifada è diventato rilevante il ruolo da esercitare all’interno di una società già troppo martoriata. Ogni atto che in occidente può sembrare banale a qualsiasi donna in Palestina diventa un gesto estremo di richiesta di liberta’.
Nella mia breve esperienza ho avuto l’opportunità di collaborare con la Palestinian Working Women Society for Development di Nablus. Una delle attività di questo centro si basa sul coinvolgimento delle donne dei villaggi limitrofi per instaurare discussioni di genere. L’approccio alla discussione di genere è totalmente diverso da quello delle donne occidentali: si parla di sogni mai realizzati, di speranze mai avverate ma, soprattutto, si parla di violenza. Queste donne non hanno un concetto di violenza di genere. Il rapimento e lo stupro di donne della parte avversa ha accompagnato ogni conflitto, dall’antica Grecia passando dalla Bosnia (dove lo stupro etnico si è fatto sentire in tutta la sua forza) fino ad oggi. Il conflitto Israelo-Palestinese è diverso dagli altri, allo stupro etnico si sostituiscono forme di violenza molto più subdole. Le donne incarcerate vengono per lo più torturate, spogliate (questo rappresenta un affronto nella cultura musulmana), stuprate con oggetti o bastoni, ma mai toccate. Anche questo ha contribuito a creare un clima di terrore e di prigionia.
Le giovani donne hanno paura e per cominciare una battaglia politica ci si deve assumere molti, troppi rischi. Per non parlare poi delle angherie che subiscono ogni giorno ai check-point: attese interminabili che le obbligano a soggiornare al di fuori della famiglia per nottate intere. La cultura musulmana è estremamente protettiva nei confronti del corpo della donna; i fatti che avvengono ai check-point hanno determinato una maggiore “protezione-segregazione” della donna all’interno della famiglia. Poi ci sono tutte quelle donne che hanno dovuto partorire ai check-point e che hanno visto il loro neonato morire fra le braccia perché i soldati proibivano loro di passare. Bambini senza opportunità di vita, bambini che muoiono perché nemmeno tramite dichiarazioni scritte dai medici possono oltrepassare il check-point per andare in ospedale; intere famiglie distrutte. Gli uomini, frustrati e chiusi in prigione, riversano la loro virilità negata all’interno della famiglia. Gli stupri e le violenze domestiche sono triplicate dalla prima alla seconda intifada e l’uso di psicofarmaci copre oggi l’80% della popolazione femminile. Gli studi hanno dimostrato che le donne soffrono di depressione e di altre psicopatologie più degli uomini. I danni psicologici delle madri palestinesi sono il risultato di una lunga serie di traumi perpetuati nel tempo, nello specifico riconducibile per lo più alla perdita di bambini a causa dell’occupazione militare. A peggiorare ulteriormente questa situazione è l’impossibilità di scappare e di avere contatti con altre città della Palestina dove spesso vivono parenti. Questo determina una totale mancanza di prospettive per il futuro e una prigionia che da fisica diventa immancabilmente mentale. Durante i miei incontri con le donne dei villaggi e con le giovani universitarie ho potuto notare come queste non riuscivano ad intendere lo stupro o la violenza fisica all’interno delle mura domestiche come un atto di violenza, bensì cercavano espedienti per scusare o comprendere l’atto subito. Il lavoro più difficile è stato quello di far capire loro che sono esseri umani e che nessuno, tranne loro stesse, può decidere quale ruolo avere all’interno del loro micro-cosmo. Ho notato che, a differenza delle donne dai quarant’anni in su che, avendo vissuto la prima intifada, hanno molta coscienza della situazione di genere in cui vivono, le giovani hanno vissuto un’ondata involutiva molto forte. Non si tratta di chi porta o no il velo, che rimane il simbolo di una cultura, ma di come queste giovani donne riflettono su se stesse. Ho conosciuto donne con 3-4 figli e il velo che lavorano instancabilmente per cercare di cambiare la situazione femminile, tanto quanto ho visto donne senza velo, vestite in modo estremamente occidentale, convinte di essere inferiori agli uomini e che il loro ruolo è semplicemente quello di fare figli.
GLI OCCHI DELLE DONNE PALESTINESI, una riflessione scritta da una volontaria del Presidio di Nablus, 5 aprile 2005.
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