LINGUISTICI RELITTI

 

martedì, 19 febbraio 2013

LINGUISTICI RELITTI

L’incrocio delle lingue non può essere considerato, come un unico atto, un colpo decisivo, che dà i suoi risultati in pochi anni. L’incrocio delle lingue è un lungo processo, che continua per centinaia di anni. Non si può quindi parlare di nessuna esplosione. Sarebbe sbagliato pensare che come risultato dell’incrocio di due lingue si ottenga una nuova, terza lingua, che non assomigli a ciascuna delle due lingue incrociatesi e differisca qualitativamente da ciascuna delle due. Difatti, una delle lingue esce solitamente vittoriosa dall’incrocio, conserva il suo patrimonio lessicale fondamentale e continua a svilupparsi secondo le leggi interne del suo sviluppo, mentre l’altra lingua perde gradatamente la sua qualità e gradatamente si estingue. Di conseguenza, l’incrocio non produce una nuova, terza lingua; ma conserva una delle lingue, conserva la sua struttura grammaticale e il suo patrimonio lessicale fondamentale e le dà la possibilità di svilupparsi secondo le leggi interne del suo sviluppo. Ricordo delle letture sulla linguistica di Giuseppe Stalin che, a proposito dello studio dei relitti tecnici, sociali, politici, ideologici di precedenti formazioni storiche ai fini della ricerca storiografica, si accenna come in tali studi s’impongano metodi diversi da quelli relativi alla utilizzazione dei relitti linguistici. Tecnica, struttura e sovrastrutture sono soggette a leggi di sviluppo, di vita e di morte, di durata e di decadenza, diverse per le une e per le altre, e diverse, a loro volta, da quelle che reggono l’evoluzione linguistica. Ciò significa che anche i relitti tecnici, sociali, politici, ideologici, in genere più esclusivamente vivaci in zone particolarmente conservative o di rifugio, hanno un senso e vanno interpretati con metodo diverso da quello per i relitti linguistici. Tutto lo sviluppo storico susseguente è un documento per la storia precedente. (Ricordo da un racconto di Bicefalo).

 LA   CONSOLAZIONE   DELLA   FILOSOFIA   -parte-
 Io che un tempo poetai con giovanile ardore
 ora son costretto nel pianto ai modi della tristezza.
 Lacere Camene, ecco, dettano i miei versi
 mentre gli elegi mi rigano il viso di lacrime vere.
 E loro, almeno, nessun terrore poté persuaderle
 a non farsi compagne del mio cammino.
 Furono gloria della giovinezza verde e felice,
 ora consolano il mio triste destino di vecchio.
 Perché incalzata dai mali la vecchiaia è giunta inattesa
 e il dolore ha preteso l’età che più gli conveniva.
 Precoci si spargono sul capo i bianchi capelli
 e la pelle, vuota, trema intorno al corpo sfinito.
 E’ morte lieta quella che non spezza i dolci anni
 ma si dona agli infelici che tante volte l’hanno invocata:
 ohimè, quanto sorda distoglie invece il suo orecchio dai miseri
 e crudele rifiuta di chiudere gli occhi che piangono!
 Quanto l’infida Fortuna spirava propizia, con gioie fallaci,
 per poco un’ora triste non mi sommerse il capo:
 ora che il suo volto ingannevole muta e si copre di nubi,
 la vita sciagurata protrae un’odiosa bonaccia.
 Perché, amici, tante volte mi chiamaste felice?
 Chi cadde, non aveva fermo il passo.
 Quando Febo con quadrighe color di rosa
 inonda di luce il cielo,
 si ottunde e impallidisce il bianco volto
 della stella che le sue fiamme premono.
 Quando all’alito tiepido di Zefiro
 rosseggia il bosco di rose in primavera,
 se pazzamente soffia Austro nebbioso
 di ogni bellezza si spogliano le spine.
 Spesso in calma tranquilla splende il mare,
 i flutti sono immoti:
 spesso Aquilone scatena furore di tempeste
 e ribolle la placida distesa.
 Se il mondo poco dura nella forma sua propria,
 se tante vicende muta,
 credi alle sorti caduche degli uomini,
 credi ai beni fugaci!
 Dura per legge eterna, ed è sancito,
 che nulla duri di ciò che è generato.
 -Boezio-

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