TURBA
lunedì, 12 marzo 2012
TURBA
Quelli sulla piazza si agitavano ogni volta che n’arrivava
ancora. Piccole folle arrivavano di tra la nebbia ad ingossar le file, e nelle
file ci si stringeva ogni volta di più; poi la piazza fu una sola folla, fu una
turba immensa. Qualcuno parlò nella nebbia fredda che si era fatta più spessa,
così spessa che si potevan contare in fila non più di sei o sette teste e
parlato che ebbe si alzò un brusio immenso. Allora la folla ondeggiò e s’agitò
e s’ingrandì il brusio ed ognuno si fece appresso a quelli coi quali era
partito alla mattina ed in breve dalla piazza sfociò nella via un corteo
grandioso. Era una valanga immensa, una valanga di carne, muta e triste che
fermò ogni traffico: avanzava lenta ma inesorabile nella nebbia, come un fiume
che ha rotto l’argine. C’erano donne e uomini, e ragazzi e ragazze, a cento, a
mille e mille; figli col loro padre e mamme con in braccio i piccoli, e abiti
sdruciti, scarpe scalcagnate. C’erano teste bianche e creature mutilate
c’erano, e tante e tante facce smunte, gialle, sofferenti e gli occhi tristi…
Un’altra folla sostò a guardare, quella dei marciapiedi, e taceva e guardava
sapendo che s’era e perché s’andava per le vie così. E la turba andava, andava
sempre e sempre triste, sempre più muta… Sfilò lenta sotto le finestre ampie di
palazzi lucidi fatti di marmo e dietro le finestre c’erano visi a guardare
senza aver vergogna, sfilò lenta sotto le mura monche delle case della povera
gente che squarciò la guerra e che nessuno ancora ha rifatto!, passò cupa in
faccia alle banche illuminate dentro e oltrepassò umile le grandi chiese
pensando a Cristo… S’andò per ore ed una ragazza mi disse: ”Io son qui perché
ho la madre a letto ed i fratelli piccoli”. ”Ed il padre?”. ”Il babbo è morto”,
disse. Ed al mio fianco un uomo con una gamba storpia pianse, poi rotolò bolsendo
una sigaretta di tabacco nero che puzzava in bocca e nel naso dei vicini. Nei
caffè e dentro i bar c’era gente che allungava il collo di dietro alle vetrate,
ma i più restavano oziosamente immoti attorno ai tavolini con le loro pance
grasse, ed i loro visi lustri e ben pasciuti si piegavano in un sorriso… ch’era
beffa ed era scherno per quei cagnacci che andavano così per via in gregge. Ed
il gregge vedeva ma andava avanti con negli occhi lampi d’odio e tristezza
nera. Quanti giorni gli armenti di quel gregge han visto quei visi lustri e
tutto quel che v’è dentro a quei locali… Vi passan davanti ogni giorno coi loro
passi stanchi, con la barba lunga e con le scarpe rotte… e con loro anch’io,
lento, triste e stanco. Ogni giorno… vanno e senza meta, col capo basso e coi
vestiti stinti. Qualcuno si ferma a volte dinanzi alla vetrina… e guarda… ed ha
gli occhi lucidi… e chissà a cosa pensa… Va così per ore, forse fino a sera,
come faccio anch’io, ch’è più triste e doloroso restar di giorno a casa! Tutto quanto
potevasi tentare, io e loro, l’abbiamo tentato… tutto, perfino la frontiera,
io. Ogni giorno ne trovo e ne sorpasso tanti, ed a volte vado per un pezzo dove
vanno loro, come loro anch’io lento, triste e stanco. Ogni giorno e da molto e
chissà per quanto ancora… In una piazza la turba si fermò. E tanta gente e
tante macchine furon chiuse in mezzo a quel mare silenzioso che puzzava forte
odor di povertà; e la turba vide che quelli sulle macchine avevan sgomento in
muso ed i suoi visi smunti ed i suoi occhi tetri e pensavano forse a come uscir
di là. Ma nessuno li toccò, nessuno. Uno solo disse: ”Tutti boie”. Poi s’andò
ancora… Una donna, ma aveva la borsa della spesa, ci batté le mani… ed un uomo
rude, fermo col suo camion, salutò col pugno teso. Negli occhi della folla
passò un lampo, ma era di bontà. In una via c’erano macchine in fila di
poliziotti armati… e la folla passò di fianco guardando anche a loro in faccia…
e più donne dissero: ”Han da avere la madre anche loro!”. Più avanti invece
essi ci fermarono… ma fu per poco, la turba era un mare… e quel mare li
travolse… e sopra al mare c’era Iddio… ed i cartelli rozzi di quella folla
dov’era scritto quel che quella turba aveva in cuore e sulla bocca… ”Lavoro…
lavoro… e pane”.
I N D O V I N A L’
I N D O V I N E L L O:
C H I E’ L’ A U T O R E ??????????
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V A L L E D
I L A C R I M E
E’ notte. Acuto sibila
tra le fessure il vento.
Ne l’abbaino son due povere anime.
Pallido è il loro aspetto e macilento.
Ed una, lieve, mormora:
Stringimi forte, dice in un sospiro.
Con le tue braccia cingimi…
Scaldami, amore, con il tuo respiro…
E risponde l’altra anima:
Se la tua sorte alla mia sorte è unita
fame e freddo spariscono
e la miseria della triste vita.
E molto si baciarono.
E piansero, abbracciati, ancor di più.
E risero. E cantarono.
Poi ad un tratto un gran silenzio fu.
All’indomani venne il Commissario
e il medico legale era con esso,
che d’entrambi i cadaveri
constatava il decesso.
Certamente l’inedia,
diss’egli, e questa rigida stagione
la morte accelerarono
se proprio non ne furon la ragione.
D’inverno è consigliabile
-egli disse- l’usar vesti di lana;
ed è raccomandabile
un’abbondante nutrizione sana.
-HEINE-
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