CARTOLINE

 

mercoledì, 14 marzo 2012

CARTOLINE

 

Non era soltanto il re delle scarpe ma anche lo schiavo del capitale, della sua mania, delle cifre. Non aveva mai conosciuto le semplici gioie di cui godono anche i comuni mortali, le gioie del riposo, di una carezza, di un po’ di simpatia. Non poteva comprendere che gli operai torturati, multati, tenuti al nastro per quattordici ore, umiliati dallo spionaggio e dalle offese, fossero molto più felici di lui. Nei momenti di libertà essi si sussurravano l’uno all’altro che anche il padrone non era eterno. Essi avevano a Praga un loro giornale: ” Il Batiano”. Gli operai partecipavano a riunioni segrete, credevano in un mondo nuovo. Il padrone credeva soltanto nelle cifre. Al suo confronto erano dei fortunati e dei ricconi. Il Padrone lavorava come può lavorare una macchina americana, voleva che i suoi operai si trasformassero in macchine, raccoglieva operai nelle campagne affamate e analfabete della Slovacchia e della Russia subcarpatica. Gli operai costavano molto meno delle macchine, lavoravano dieci, dodici, quattordici ore al giorno, le fabbriche erano sprovviste di sirene e il lavoro finiva soltanto quando era portata a termine l’ordinazione. Il padrone dichiarò in Tribunale di osservare l’orario delle otto ore. Allora gli operai di Zilina mi mandarono una grande quantità di cartoline. All’uscita dalla fabbrica c’era una macchina che metteva un timbro su queste cartoline quando l’operaio veniva e quando se ne andava. Portai queste cartoline al tribunale, esse dimostravano che il padrone spesso obbligava i suoi operai a restare al nastro fino alle due di notte. Gli operai erano giovani, ma lavorando in tal modo, diventavano presto vecchi. Il padrone aveva più di cinquant’anni e alle ventidue andava a dormire, gli operai continuavano a lavorare. Il padrone chiamava i suoi operai ”figlioli”, essi erano i figlioli di lui, Tommaso Batia, che li accarezzava e li puniva. Ogni giorno inventava per loro nuove multe, pagava centinaia di spie, che sorvegliavano ogni passo dell’operaio, sottoponeva le donne a una impudica visita medica. Il padrone non trattava troppo bene i suoi ”figlioli”. Teoricamente li aveva resi compartecipi dei suoi guadagni, ma, detratte le multe, risultò che le operaie ricevevano alla settimana dalle settanta alle ottanta corone. Il padrone costruì per gli operai ospedali, scuole, circoli, cooperative. Quando arrivavano i giornalisti stranieri, le tavole degli operai erano ornate di fiori. Quando i giornalisti non c’erano, gli operai mandavano giù in due minuti una zuppa. Il padrone presentò al tribunale una fotografia meravigliosa: operai sorridenti siedono davanti a una tavola fastosamente imbandita. Io invece presentai al tribunale una piccola fotografia presa di nascosto: gli operai mangiavano in fretta e furia, seduti per terra. Nei magnifici ospedali essi morivano rapidamente di tisi galoppante. Nelle scuole ai loro figli si insegnava a essere ubbidienti e mansueti. La moglie del padrone faceva ricche donazioni alle chiese del circondario e in queste chiese i preti cantavano le lodi della grandezza del Signore e di quelle del padrone. Per quel che concerne le cooperative, esse appartenevano al padrone. Del resto a Zilina tutto apparteneva a Tommaso Batia, anche la strada ferrata; e tutto il denaro che gli operai ricevevano dal padrone tornava a quello stesso padrone e cioè a Tommaso Batia. Il padrone non permetteva che a Zilina esistessero organizzazioni di nessuna specie. Alle elezioni, gli operai dovevano votare per lui. Nella fabbrica si attaccavano al muro dei manifesti: ”Io, riconosco una associazione sola ed è la mia impresa”. Gli operai che si iscrivevano al sindacato venivano spesso licenziati. Il padrone disprezzava lo stato e le leggi sulla tutela del lavoro. Il padrone aveva la sua polizia. (Meditazione sul Viaggio attraverso la giungla d’Europa ”giugno 1948” di Ilja Ehrenburg).

 

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S  U       M  O  N  T  E        M  A  R  I  O

 

Solenni in vetta a Monte Mario stanno

 

nel luminoso cheto aere e cipressi,

 

e scorrer muto per i grigi campi

 

mirano il Tebro,

 

mirano al basso nel silenzio Roma

 

stendersi, e, in atto di pastor gigante

 

su grande armento vigile, davanti

 

sorger San Pietro.

 

Mescete in vetta al luminoso colle,

 

mescete, amici, il biondo vino, e il sole

 

vi si rifranga: sorridete, o belle:

 

diman morremo.

 

Lalage, intatto a l’odorato bosco

 

lascia l’alloro che si gloria eterno,

 

o a te passando per la bruna chioma

 

splenda minore.

 

A me tra ‘l verso che pensoso vola

 

venga l’allegra coppa ed il soave

 

fior de la rosa che fugace il verno

 

consola e muore.

 

Diman morremo, come ier moriro

 

quelli che amammo: via da le memorie,

 

via da gli affetti, tenui ombre lievi

 

dilegueremo.

 

Morremo; e sempre faticosa intorno

 

de l’almo sole volgerà la terra,

 

mille sprizzando ad ogni istante vite

 

come scintille;

 

vite in cui nuovi fremeranno amori,

 

vite che a pugne nuove freneranno,

 

e a nuovi numi canteranno gl’inni

 

de l’avvenire.

 

E voi non nati, a le cui man la face

 

verrà che scorse da le nostre, e voi

 

disparirete, radiose schiere,

 

ne l’infinito.

 

Addio, tu madre del pensier mio breve,

 

terra, e de l’alma fuggitiva! Quanta

 

d’intorno al sole aggirerai perenne

 

gloria e dolore!

 

fin che ristretta sotto l’equatore

 

dietro i richiami del calor fuggente

 

l’estenuata prole abbia una sola

 

femina, un uomo,

 

che ritti in mezzo a’ ruderi de’ monti,

 

tra i morti boschi, lividi, con gli occhi

 

vitrei te veggan su l’immane ghiaccia,

 

sole, calare.

 

-Giosue  Carducci-

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