PECORE

 

mercoledì, 26 gennaio 2011

PECORE

 

 Le vostre pecore che di solito sono così miti e si nutrono di così poco, ora cominciano ad essere così affamate e indomabili da mangiarsi persino gli uomini. Dalle parti del reame dove nasce una lana più bella e quindi più preziosa, i nobili e i signori e persino alcuni abati, che pure sono uomini santi, non contenti delle rendite e dei prodotti annuali che ai loro antenati solevano provenire dalle loro proprietà, e non paghi di vivere nell’ozio e fra splendori senza esser di vantaggio alcuno al pubblico, quando non siano di danno, cingono ogni terreno di steccati ad uso di pascolo, senza nulla lasciare alla coltivazione e in tal modo diroccano case e abbattono paesi. Quando si dà il caso, i coltivatori vengono cacciati via e, ingannati o sopraffatti dalla violenza, sono anche spogliati del proprio ossia costretti a venderlo sotto la minaccia di ingiuste vessazioni. Insomma in un modo o in un altro quei disgraziati debbono andarsene, uomini e donne, mariti, mogli, genitori con bambini. E una volta che in breve tempo costoro, nel corso del loro girovagare, hanno speso tutto quel che loro restava, che altro restava, che altro resta se non rubare, per esser di santa ragione, si capisce, impiccati o andar in giro elemosinando? La verità è che, per quanto essi si offrano di gran cuore, non c’è nessuno che li prenda a servizio. Dove non si semina, nulla resta da fare per i lavori dei campi a cui erano stati abituati. Un solo pecoraio o bovaro è sufficiente per la terra messa a pascolo, mentre per coltivarla occorrevano un tempo molte mani. Ma se anche dovesse crescere al massimo il numero delle pecore, non per questo ne diminuirebbe il prezzo. Se non formano un monopolio nelle mani di uno solo, ma anche se non è uno solo il venditore, sono un oligopolio, un accaparramento di pochi, perché generalmente son nelle mani di una oligarchia, e di una oligarchia di ricchi. Nulla costringe costoro a vendere quando non piace loro, e non piace prima di poterlo fare al prezzo che vogliono. Essi immaginano e inventano ogni arte con cui prima di tutto conservare senza timore di perderlo, ciò che hanno disonestamente accumulato e in secondo luogo come accaparrare, al prezzo più basso possibile, ciò che con fatica producono i poveri. I ricchi stabiliscono che queste subdole disposizioni vengano osservate in nome dello stato, cioè anche in nome dei poveri. Ma questi immoralissimi uomini che con insaziabile cupidigia si dividono fra loro le ricchezze che sarebbero bastanti per tutti, come sono lontani dalla dalla felicità della repubblica di Utopia, ove, una volta tolto di mezzo l’uso e quindi il desiderio del denaro, di qual immenso cumulo di molestie ci si libera, quale selva di scellerataggini vien divelta sin dalle radici. I mali della terra derivano dalla divisione della società in poveri e in ricchi, divisione basata sull’istituto della proprietà privata. E’ dunque la proprietà privata che deve essere abolita, e al posto di essa creare una società senza classi. Questa la conclusione di Itlodeo. (meditazione: Utopia di Tommaso Moro).

 

  

 

SENZA TITOLO

 

La società recidiva

senza occhi

senza voce

senza orecchie

reprime immensità di nuova vita

in metafore di vista, di urli, di udito.

La compagine povera che soffre

percepisce ciò che nessun potente

potrà mai imitare o soffocare.

Una nuova èra avanza

nell’aria e nel sangue

già volteggia e pulsa.

Nel sapere di chi non sa

l’alba e il tramonto

è ancora alba e tramonto.

Ma se il tramonto

si chiamasse alba?

E se l’alba

si chiamasse tramonto?

E se la morte della ricchezza

si chiamasse vita?


-Renzo Mazzetti-

 

(Orizzonti, Libroitaliano, Ragusa, 2001

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