ARRESTATO
sabato, 18 dicembre 2010
ARRESTATO
Arrestato. =. In quell’inverno 1924-25 gli studi al liceo Visconti continuarono più svogliati e disordinati che mai. Avevo ben altro da fare che seguire diligentemente le lezioni. E poi anche al Visconti la lotta antifascista infuriava. Cominciarono subito gli attacchi dei fascisti che venivano da altre scuole, perché il Visconti era ancora una roccaforte antifascista. Gli studenti antifascisti prevalevano perché erano più combattivi, organizzati e anche i più bravi della scuola. La loro superiorità culturale e morale finiva per imporsi anche sui pochi fascisti. Questi, incapaci da soli di combattere, facevano venire vigliaccamente degli squadristi per attaccarci. Nelle mischie mi districavo bene, e il buon professore Lizier, preside del liceo, mi aveva consentito di portare a scuola, per depositarlo presso il bidello e riprenderlo all’uscita, il mio bastone di nerbo di bue con l’anima d’acciaio. Mi era riconosciuto il diritto di legittima difesa. Presto scoppiarono incidenti anche all’interno. Il professor Ugo Antonielli, il restauratore delle navi di Nemi, in occasione dell’anniversario di Oberdan, fece una concione apertamente fascista. A un certo punto non ne potei più, mi alzai rumorosamente e uscii dall’aula magna sbattendo la porta in segno di sdegno. Fu il segnale di una mischia, dominata dagli antifascisti al grido di < viva la libertà >. Carlo Marchiani, con alcune sediate, mise a posto i fascisti. Questi si vendicarono facendo venire fascisti da altre scuole. Riferivo fiero questi fatti a mio padre, ma non riuscivo a farlo ridere. Amendola guardava ormai avanti, lontano. A casa usava dire: < Ci vorranno vent’anni. Preparatevi, studiate, studiate le lingue, forse bisognerà emigrare >. Questi discorsi si fecero più frequenti dopo l’aggressione di Montecatini, ma cominciarono subito dopo il 3 gennaio. Era mutato anche il suo atteggiamento in famiglia. Meno severo e burbero, più affettuoso. Mi permise, persino, dopo le insistenze di Bencivenga, di farmi fotografare al suo fianco e quella fotografia, più volte pubblicata, è l’unica testimonianza che mi resta di un rapporto nuovo stabilito con mio padre nel corso di quella lotta. In fondo, anche se non lo diceva, era contento di vedermi impegnato nella battaglia antifascista. Mi chiedeva spesso cosa pensavano i miei amici, quale era l’orientamento dei giovani. Fu allora che gli presentai Ugo La Malfa, che doveva partecipare al convegno costitutivo dell’Unione nazionale, il Partito della Nuova Democrazia. Conosceva da tempo Sergio Fenoaltea che frequentava la nostra casa. L’Unione goliardica per la libertà aveva preso un grosso sviluppo, mentre si accentuava la frattura con la Corda Fratres, meno impegnata politicamente e occupata soprattutto a preparare le celebrazioni del settimo centenario della fondazione dell’università di Napoli, che assunsero, tuttavia, nel 1925, un carattere largamente antifascista. Tenevamo le nostre riunioni nella sede dell’Unione nazionale, in via dell’Umiltà, presso piazza Sciarra. All’uscita, dopo le nostre assemblee, cominciarono a moltiplicarsi gli scontri con squadristi della Disperata. Lo scontro assunse proporzioni più vaste, dilagò nelle vie adiacenti e si prolungò al Corso, fino a piazza Colonna. Vi furono dei feriti e dei fermati, presto rilasciati. Qualcuno restava acciaccato, come il mio amico Mario Paone che per difendermi prese una manganellata che lo obbligò a farsi ricoverare all’ospedale San Giacomo. Ma le violenze non superarono un certo limite. Si era ben lontani dalla ferocia usata contro il movimento operaio negli anni 1921-22. Adesso i fascisti non usavano armi da fuoco e la polizia interveniva senza accanirsi. Le direttive di Federzoni erano certamente quelle di non aggravare la situazione. Si preferì sciogliere la nostra associazione. Ne preparammo subito un’altra, credo che si chiamasse Scienza e Libertà, o Patria e Libertà. I decreti di scioglimento si succedevano. Allora decidemmo di pubblicare un manifesto clandestino, di affiggerlo illegalmente, dopo averlo gettato contemporaneamente in diversi teatri. Era il primo passo sulla via della lotta illegale. I lanci riuscivano bene, solo in un teatro vi furono arresti. Meno felici i tentativi di diffusione illegale. Fenoaltea e io, dopo avere gettato i manifestini dal loggione del Quirino, girammo col nostro pentolino di colla e i fogli del manifesto attorno al Pantheon. La questura era poco lontana, in piazza del Collegio Romano, e fummo presto arrestati. Portati in questura, fummo posti in celle isolate. Passai così la prima notte di carcere in una stanzetta che si affacciava in via della Gatta. Mi addormentai subito e feci un bel sonno. La mattina dopo c’ interrogarono tardi, ricevemmo una severa romanzina e ci misero in libertà. Seppi poi che vi erano stati gli interventi degli amici di mio padre, il solito Molé, che non gli fece sapere nulla per timore che, con la sua consueta intransigenza, impedisse i necessari passi in questura. Ancora una volta fui offeso e mortificato per quella non richiesta protezione. Per questo motivo quando, a sua volta, mia figlia Ada è stata qualche volta fermata in manifestazioni politiche, a Napoli e a Roma, non sono mai intervenuto a suo favore. Uscii dalla questura che era già mezzogiorno e mi confusi subito con i compagni che uscivano a quell’ora, nella stessa piazza del Collegio Romano, dal Visconti. Tutti erano già al corrente della mia avventura, che rialzava il mio prestigio di < capo > degli studenti antifascisti. Mi incontrai a un tratto col professor Mariano Pelaez, di letteratura italiana, brav’uomo, all’antica, probo e anche pignolo. Ho pensato spesso a lui, quando mi hanno riferito modi e costumi della scuola d’ oggi. Cortese sempre, esigeva cortesia e correttezza nell’abbigliamento. I suoi polsini erano sfilacciati, ma la camicia sempre bianchissima. Lo rispettavamo tutti e quando perse la moglie sentì accanto a sé il calore del nostro affetto. Qualcuno dirà che ho fatto un quadretto deamicisiano, ma non è un’accusa che mi offenda. Il professor Pelaez, vedendomi in piazza senza essere stato presente alle lezioni, mi rimproverò per l’impudenza con la quale, dopo avere disertato la scuola, osavo presentarmi alla fine per ostentare la mia indisciplina. Quando i compagni, tutti risentiti, gli fecero notare che io non avevo disertato, ma ero stato < arrestato >, egli mi guardò imbarazzato e preoccupato, e arrivò a scusarsi per i suoi ingiustificati rimproveri. Chi ci rimase male per il suo imbarazzo fui io, mi accusavo di avere voluto, davanti ai miei compagni, ostentare la piccola avventura di una notte passata sul pancaccio, come se volessi apparire un nuovo Settembrini. A casa mio padre rimise tutto a posto con qualche frase severa. Ma credetti di comprendere che non era, in fondo, scontento. Forse pensava al suo arresto giovanile, che gli era stato ricordato dalla visita dei tre lavoratori anarchici di San Lorenzo. -Giorgio Amendola- (Una scelta di vita – Lotte studentesche).
Sento di camminare, spiccato ad ogni mio passo,
tranquillo, ventilato dalla larga apertura del volto.
Il sole leggero affresca i palazzi di verde tenero,
e le botteghe dai vetri limpidi oscillano alla mia schiena.
Le donne, in vestiti improvvisi di colore, si nutrono di carne ai calcagni:
al volto la felice sorpresa di sgorgare nell’aria, e gli occhi schiacciati
come gocce piccanti di freddo corrono in brividi nella carne.
Sono confuso, impacciato al boccale di schiuma.
Nel chiosco s’affila in spinta una bandiera e mi s’allarga in faccia.
Mani grosse sulle mie spalle: vociante e barrocciaio.
La piazza arde di vento nella folla gaia, mi vedo ilare, colorato.
-Alfonso Gatto-
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