NELLA BAIA DI RIO JANEIRO

 

domenica, 28 marzo 2010

NELLA BAIA DI RIO JANEIRO

Mentre tutti brillanti nella gioia del ritorno stavamo per scendere nella barca a vapore che ci doveva portare al piroscafo, si avvicinò alla comitiva un contadino d’una cinquantina d’anni, alto e pallido, che camminava a fatica e che aveva un involto di panni sotto il braccio. Era un emigrato lombardo: uno di quei molti disgraziati che i medici dei bastimenti rimandano indietro per non avere un morto a bordo durante la traversata dell’Oceano: era molto grave e l’avevano rimandato anche perché, essendovi a Rio Janeiro la febbre gialla, s’usava più rigore del solito. Domandò del comandante, ch’era fra noi: gliel’accennammo; gli si avvicinò col cappello in mano. Aveva gli occhi infossati, uno di quei viso di contadini risentiti e fieri, che fanno più compassione degli altri, quando si vedon supplichevoli, perché si capisce quanto dovettero e debbon soffrire per mutarsi in quella maniera. Egli domandava per grazia di essere ricevuto a bordo. Veniva dall’interno del Brasile, era sfinito da un viaggio lunghissimo e penoso, voleva ritornare in patria; e non lo diceva, ma si vedeva che voleva partire a ogni costo quel giorno, perché sentiva che i suoi giorni eran contati. Il comandante gli rispose di no. Il contadino si percosse la fronte con la mano. Poi cominciò a pregare con voce tremante, parlando rapidamente. Mi lasci partire, signor comandante, mi lasci partire. Mi metteranno dove vogliono. Mi chiudano, anche. Paghi el doppi. Quando dico che mi chiudano! Mi gettino in mare se vedranno che va male. Ho bisogno di partire. Ci ho la mia famiglia laggiù che m’aspetta; i piscinitt. El doppi paghi. Me raccomandi per l’amor di Dio. Poi un’esplosione della voce: Ch’el disa minga de no! Ch’el disa minga de no! Il comandante scrollò le spalle, con rammarico, ma risolutamente, e saltò nella barca. Allora il contadino s’attaccò a un altro della brigata, con voce affannosa, col viso e l’accento di un uomo atterrito. Me raccomandi a lù, scior. Parli lei al comandante. Ci ho la mia famiglia. Faccia questa opera di carità. Non sto mica tanto male. Paghi quel che voeuren. E’ perché mi vedono smorto. Ma non sto mica tanto male. Mi raccomandi, la preghi che non ‘l me abbandona per amor di Dio, che ho bisogno di tornare al mio paese, ghe disi per l’amor di Dio! Il pregato gli disse qualche parola di conforto, che si rassegnasse, che era impossibile, e saltò nella barca egli pure. Il contadino saltò dietro a lui, e s’attaccò al console, pigliandolo per i panni, affollandolo di parole sconnesse, che accennavano alla sua vita, ai suoi patimenti. Era nel Brasile da quattro anni, non ci aveva parenti, stava male da un pezzo. Voleva andare a chiudere gli occhi nel suo paese, in mezzo ai suoi. Perdere la partenza di quel giorno voleva dire la morte in terra straniera, morir solo, abbandonato, disperato. E parlava, pregava, con voce supplichevole, facendo degli atti carezzevoli, giungendo le mani come un bambino, e interrogando ora l’uno ora l’altro con uno sguardo che straziava l’anima. Tutti si rivolsero al comandante. Era proprio costretto a respingerlo? Non era possibile fare un’eccezione? Quel rude uomo di mare dovette raccogliere la voce per rispondere. No, disse con uno sforzo, e voltò il viso da un’altra parte. Il contadino fu risospinto da un marinaio sopra la scaletta d’imbarco e la barca cominciò a muoversi. Di là continuò a pregare, parlando precipitosamente, battendosi la mano sul petto, come per provare che era ancora forte, e ripetendo: Moeuri minga! Moeuri minga! Mi lascino partire per l’amor di Dio! Ghe giuri che moeuri minga! Ma nessuno di noi osava più guardarlo. La barca si allontanava. Udimmo ancora una volta quelle sconsolate parole, lanciate come un grido di angoscia e di rabbia: Moeuri minga! E poi non udimmo più nulla. Tutti tacevano, rattristati da quella scena, e guardavano intorno. La barca guizzava rapidissima sulle acque chiare, e la baia meravigliosa di Rio Janeiro ci si svolgeva davanti: quegli alti picchi dalle forme di montagne lunari, quei monti popolati di regine e di imperatori della vegetazione, quei boschi scapigliati, quelle isole coronate di palme, tutto quell’anfiteatro immenso, disordinato, strano, così grande che la fantasia vi si perde, così bello che mette quasi tristezza. Ci parve d’arrivare troppo presto al piroscafo, che già fumava, e appena saliti ci mettemmo al parapetto, in mezzo ad altri mille passeggeri, a riguardare la baia l’arco trionfale dell’America che resta nella mente di ogni viaggiatore come una visione di paradiso. Alcuni amici di Rio Janeiro erano rimasti sotto nella barca a vapore, che aveva a prua la bandiera italiana. Rimanemmo là non so quanto tempo.

 

Il sole tramontava, il cielo era tutto rosato, la baia rosata, le grandi rocce coniche parevan di corallo, sull’orizzonte dell’oceano si allungava una striscia di nuvole purpuree. E cominciava a scoppiettare allegra la conversazione fra noi e gli amici di sotto, quando una voce dolorosa, sinistra, lacerante, quella voce, ci arrivò improvvisamente all’orecchio. Mi lascino partire! Ci ho la famiglia! Paghi el doppi! Moeuri minga! I preghi per l’amor di Dio. Appena partiti noi, quegli s’era gettato nella barchetta d’un negro, che l’aveva portato là in men d’un’ora, facendo forza per quattro. Il comandante, dall’alto del ponte di comando, gli rispose con un cenno del capo in mezzo alle altre barche: E’ impossibile. Quegli intanto, s’era spinto innanzi con la sua e, afferratosi alla catena della scala reale, dove un marinaio gl’impediva il passo, continuava a pregare affannosamente, ora guardando in su verso il capitano e verso di noi, ora verso gli amici della barca a vapore, la cui bandiera gli pendeva sopra una spalla; e giungeva le mani, abbracciava le gambe del marinaio, baciava la bandiera, accennava il cielo, spendeva un torrente di parole, quasi fuori di sé: il mio paese, la mia famiglia, i me piscinitt, per pietà, moeuri minga, con voce roca, coi lamenti d’un bimbo, con lo sguardo d’un moribondo, coi gesti d’un pazzo… Dal ponte di comando tuonò un grido: su la scala. Le catene cigolarono; la scala s’alzò; il sisgraziato, respinto dal marinaio, ricadde seduto in mezzo alla barca. E diede in una risata dolorosa e più lugubre del più disperato scoppio di pianto. Poco dopo si udì il fischio della partenza. Intanto, dal parapettp della terza classe gli gridavano: Coraggio, buon uomo, partirete quando starete meglio. C’è un altro vapore fra quindici giorni. E qualche voce scellerata gli diceva: Purgati! Ripassa domattina! Ma egli, rifattosi cupo, pareva che non capisse più nulla, e guardava gli uni e gli altri con grande stupore. Il bastimento si mosse. Allora balzò in piedi con impeto, e tese il pugno verso il ponte, in atto di scagliare una orrenda maledizione. Poi ricadde d’un colpo nella barca, col viso nelle mani, e ruppe in un singhiozzo violento, che pareva una risata… Era già lontano da noi e lo vedevamo ancora che scuoteva le spalle con mevimento convulso, vedevamo ancora col cuore stretto, là in mezzo alla baia, quell’immenso dolore senza conforto, a cui sorrideva tutto intorno quell’immensa bellezza senza pietà. Dopo cinque minutiegli non era più che un punto nero in mezzo al mare color di rosa… -Edoardo De Amicis-

 

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DOMANI SARA’ RESURREZIONE

 

Non mi considerano un uomo

 

perché non ho l’automobile!

 

Non mi considerano un uomo

 

perché non possiedo un castello!

 

Perché non ho un conto in banca

 

non sono un uomo per loro, lo so!

 

Alla resa dei conti

 

porto solo progetti:

 

non sono un uomo, per loro!

 

Do noia come un oggetto vecchio e vile

 

che si getta negli angoli; mi scaraventano

 

sui marciapiedi perché do noia

 

con la fame in pancia e l’angoscia nel cuore.

 

E m’inseguono come se fossi un brigante,

 

li spaventa la mia bruciata povertà;

 

ho putredine di spie alle calcagna

 

perché minaccio le loro casseforti

 

e le banche e la potenza o feudalesimo!

 

Pezzente sono, loro fratello in Cristo,

 

e faccio esperienza della carità cristiana.

 

Sono cose che so! Ma vien la notte

 

viene la grande notte e metamorfosi

 

svaniscono le ombre e muoiono

 

all’ultimo bagliore di nequizie.

 

 

 

Domani sarà resurrezione

 

di un popolo e di un mondo incatenati,

 

il canto trionfale del lavoro,

 

la gioia degli uomini uniti,

 

il concerto dei cuori all’unissono,

 

domani sarà giorno di vittoria

 

vincerà l’uomo con gaie risate

 

di continenti felici

 

e i bianchi e i gialli e i rossi e i neri

 

saran fratelli per sempre. E bianchi e i gialli

 

e rossi e neri, fratelli,

 

con l’amore uccideranno la miseria

 

e mai più un’automobile

 

avrà più valore dell’uomo!

 

Dell’uomo che pensa,

 

che soffre ed ama,

 

dell’uomo che vive,

 

oh uomo nostro fratello!

 

-Bernard B. Dadié-

 

(Patriota, Costa d’Avorio, negli anni 1950 incarcerato dai colonialisti)

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