MARAT

 

mercoledì, 16 dicembre 2009

MARAT

La leggi sono fatte dai ricchi e per i ricchi; esse non riguardano per nulla i poveri e se questi vi si rivoltano contro, essi non commettono un atto immorale e punibile. Chi ruba per vivere non potendo fare altrimenti, non fa che usare un suo diritto. Questo scritto ( nel Piano di legislazione criminale ) per Jean Paul Marat, nel 1776, significò persecuzioni e miseria. Fu tra i primissimi, dalla presa della Bastiglia in poi, nelle file rivoluzionarie. Il suo giornale: L’Amico del popolo, fu quello più combattivo e avanzato della rivoluzione. L’energia del suo linguaggio, la vigorosa difesa ch’egli faceva in ogni occasione degli interessi del proletariato, denunciando i ministri, i membri conservatori della Costituente, i ricchi accaparratori di grano e di merci, lo fecero diventare l’idolo del popolo, ma gli attirarono ostilità e persecuzioni. Il 12 aprile del 1793 i girondini riuscirono ad ottenere contro di lui un ordine di arresto. Il processo terminò con la sua assoluzione. Il 13 luglio dello stesso anno, Carlotta Corday lo uccise con un pugnale e fu elevata, dai nemici del popolo al grado di eroina, esaltata anche in drammi e romanzi dai reazionari.

 


 

AVANTI! AVANTI!

Avanti, avanti, o sauro destrier de la canzone!

L’aspra tua chioma porgimi, ch’io salti anche in arcione

Indomito destrier.

A noi la polve e l’ansia del corso, e i rotti venti,

E il lampo de le selici percosse, e de i torrenti

L’urlo solingo e fier.

I bei ginnetti italici han pettinati crini,

Le constellate e morbide aiuole de’ giardini

Sono il lor dolce agon:

Ivi essi caracollano in faccia a i loro amori,

La giuba a tempo fluttua vaga tra i nastri e i fiori

De le fanfare al suon;

E, se lungi la polvere scorgon del nostro corso,

Il picciol collo inarcano e masticando il morso

Par che rignino – Ohibò !-

Ma l’alfana che strascica su l’orlo de la via

Sotto gualdrappe e cingoli la lunga anatomia

D’un corpo che invecchiò,

Ripensando gli scalpiti de’ corteggi e le stalle

De’ tepid’ozi e l’adipe de la pasciuta valle,

Guarda con muto orror.

E noi corriamo a’ torridi soli, a’ cieli stellati,

Per note plaghe e incognite, quai cavalier fatati,

Dietro un velato amor.

Avanti, avanti, o sauro destrier, mio forte amico!

Non vedi tu le parie forme del tempo antico

Accennarne colà ?

Non vedi tu d’Angelica ridente, o amico, il velo

Solcar come una candida nube l’estremo cielo?

Oh gloria, oh libertà!

Ahi, da’ prim’anni, o gloria, nascosi del mio cuore

Ne’ superbi silenzii il tuo superbo amore.

Le fronti alte del lauro nel pensoso splendor

Mi sfolgorar da’ gelidi marmi nel petto un raggio,

Ed obliai le vergini danzanti al sol di maggio

E i lampi de’ bianchi omeri sotto le chiome d’òr.

E tutto ciò che facile allor prometton gli anni

Io ‘l diedi per un impeto lacrimoso d’affanni,

Per un amplesso aereo in faccia a l’avvenir.

O immane statua bronzea su dirupato monte,

Solo i grandi t’aggiungono, per declinar la fronte

Fredda su ‘l tuo fredd’omero e lassi ivi morir.

A più frequente palpito di umani odii e d’amori

Meglio il petto m’accesero ne’ lor severi ardori

Ultime dee superstiti giustizia e libertà;

E uscir credeami italico vate a la nuova etade,

Le cui strofe al ciel vibrano come rugghianti spade,

E il canto, ala d’incendio, divora i boschi e va.

Ahi, lieve i duri muscoli sfiora la rima alata!

Co ‘l tuon de l’arma ferrea nel destro pugno arcata,

Gentil leopardo lanciasi Camillo Demulèn,

E cade la Bastiglia. Solo Danton dislaccia,

Per rivelarti a’ popoli, con le taurine braccia,

repubblica vergine, l’amazonio tuo sen.

A noi le pugne inutili. Tu cadevi, o Mameli,

Con la pupilla cerula fisa a gli aperti cieli

Tra un inno e una battaglia cadevi; e come un fior

Ti rideva da l’anima la fede allor che il bello

E biondo capo languido chinavi, e te, fratello,

Copria l’ombra siderea di Roma e i tre color;

Ed al fuggir de l’anima su la pallida faccia

Protendea la repubblica santa le aperte braccia

Diritta in fra i romulei colli e l’occiduo sol.

Ma io d’intorno premere veggo schiavi e tiranni,

Ma io su ‘l capo stridere m’odo fuggenti gli anni

—Che mai canta, susurrano, costui torbido e sol?

Ei canta e culla i queruli mostri de la sua mente,

E quel che vive e s’agita nel mondo egli non sente.—

O popolo d’Italia, vita del mio pensier,

O popolo d’Italia, vecchio titano ignavo,

Vile io ti dissi in faccia, tu mi gridasti: Bravo;

E de’ miei versi funebri t’incoroni il bicchier.

Avanti, avanti, o indomito destrier de gl’ inni alato !

Obliar vo’ nel rapido corso l’inerte fato,

I gravi e oscuri dí.

Ricordi tu, bel sauro, quando al tuo primo salto

I falchi salutarono augurando ne l’alto

E il bufolo muggí?

Ricordi tu le vedove piagge del mar toscano,

Ove china su ‘l nubilo inseminato piano

La torre feudal

Con lunga ombra di tedio da i colli arsicci e foschi

Veglia de le rasenie cittadi in mezzo a’ boschi

Il sonno sepolcral,

Mentre tormenta languido sirocco gli assetati

Caprifichi che ondeggiano su i gran massi quadrati

Verdi tra il cielo e il mar,

Su i gran massi cui vigile il mercator tirreno

Saliva, le fenicie rosse vele nel seno

Azzurro ad aspettar?

Ricordi Populonia, e Roselle, e la fiera

Torre di Donoratico a la cui porta nera

Conte Ugolin bussò

Con lo scudo e con l’aquile a la Meloria infrante,

Il grand’elmo togliendosi da la fronte che Dante

Ne l’inferno ammirò?

Or (dolce a la memoria) una quercia su ‘l ponte

Levatoio verdeggia e bisbiglia, e del conte

Novella il cacciator

Quando al purpureo vespero su la bertesca infida

I falchetti famelici empiono il ciel di strida

E il can guarda al clamor.

Là tu crescesti, o sauro destrier de gl’inni, meco;

E la pietra pelasgica ed il tirreno speco

Furo il mio solo altar

E con me nel silenzio meridian fulgente

I lucumoni e gli àuguri de la mia prima gente

Veniano a conversar.

E tu pascevi, o alivolo corridore, la biada

Che ne’ solchi de i secoli aperti con la spada

Del console roman

Dante, etrusco pontefice redivivo, gettava;

Onde al cielo il tuo florido terzo maggio esultava,

Comune italian,

Tra le germane faide e i salmi nazareni

Esultava nel libero lavoro e ne i sereni

Canti de’ mietitor.

Chi di quell’orzo il pascesi, o nobile corsiero,

Ha forti nervi e muscoli, ha gentile ed intero

Nel sano petto il cor.

Dammi or dunque, apollinea fiera, l’alato dorso:

Ecco, tutte le redini io ti libero al corso:

Corriam, fiera gentil.

Corriam de gli avversarii sovra le teste e i petti,

De’ mostri il sangue imporpori i tuoi ferrei garetti;

E a noi rida l’april,

L’april de’ colli italici vaghi di mèssi e fiori,

L’april santo de l’anima piena di nuovi amori,

L’aprile del pensier.

Voliam, sin che la folgore di Giove tra la rotta

Nube ci arda e purifichi, o che il torrente inghiotta

Cavallo e cavalier,

O ch’io discenda placido dal tuo stellante arcione,

Con l’occhio ancora gravido di luce e visione,

Su ‘l toscano mio suol,

Ed al fraterno tumolo posi da la fatica,

Gustando tu il trifoglio da una bell’urna antica

Verso il morente sol.

-GIOSUE’ CARDUCCI-


Vedi: LA CORTE





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