ENTUSIASMO E TRISTEZZA
sabato, 27 maggio 2017
ENTUSIASMO E TRISTEZZA
L’ultimo racconto affascinante era stato quello del minatore
cieco del Perù che s’ostinava a dichiararsi comunista anche quando sapeva di
rischiare la vita. “Ho visto tutto il mondo, mi manca la Cina, voglio vedere
coloro che sono riusciti a ripetere il miracolo di una rivoluzione proletaria
in un paese dove i protagonisti si contano a centinaia di milioni”. Malaparte
ricordava con orgoglio le sue corrispondenze dall’URSS durante l’ultima guerra
sul Corriere della Sera perché avevano fatto capire la verità a chi sapeva
leggerle attentamente. Quando tutti davano già Hitler come padrone dell’URSS
lui sosteneva abbastanza chiaramente che i russi avrebbero vinto e avrebbero
fatto mordere la polvere ai nazisti. E questo prima dell’assedio di
Stalingrado. Così ricordava con orgoglio le corrispondenze che aveva scritto
sull’Unità nei primi mesi della guerra civile con altra firma dopo avere
concordato la collaborazione con Togliatti. Quando al mio ritorno dalla Cina
gli telefonai che avevo preparato il suo viaggio e il visto gli sarebbe giunto
in settimana, perse la parola; mi arrivava soltanto il suo fiato lungo poi un
suo grazie a voce commossa. Partì felice per la Cina nonostante gli facesse già
compagnia un febbre costante. Mi scriveva ogni giorno lettere trepidanti, con
quei suoi scoppi di entusiasmo caratteristici come lo erano state all’opposto,
in Kaputt e La pelle, le battute feroci e i sadismi sepolcrali. Prima di
partire mi aveva dedicato l’unica copia che aveva del suo primo libro scritto
nelle trincee della guerra 1914-’18 La rivolta dei santi maledetti, e credo che
pochi libri siano riusciti a fare odiare tanto la guerra come questo. Poi le
sue lettere da Canton, da Pechino si diradarono, le altre poche e brevi
grondavano di una invincibile tristezza. Si capiva che faceva uno sforzo per
reagire ma non vi riusciva. “Sono malato, qualcosa mi rosicchia dentro. Ho
sempre avuto paura del cancro. Forse lo stramaledetto mi ha ghermito. Ma i
cinesi guariscono tutto. Mi faranno l’agopuntura. Se mi liberano dal male starò
qui a lavorare per loro tutta la vita. Tu perdonami se non tornerò a
riabbracciarti”. Tornò invece dalla Cina e soltanto per volontà riuscì a
reggersi in piedi sulla scaletta dell’aereo fino alla macchina che lo doveva
portare in clinica. Si appoggiava a me: era debole, pallidissimo. Mi ripeteva,
alternandole, due frasi come una cantilena: “I cinesi sono buoni. Il cancro mi
distruggerà”. La malattia durò lunghissimi giorni. Partivo da Milano per
andargli a tenere compagnia. I visitatori erano sempre molti ma amici veri non
ne aveva troppi anche perché non li aveva meritati. Quando c’erano altri
fingeva di non conoscere la natura del suo male. Quand’era solo mi diceva:
“Riesco a evitare la sorveglianza dell’infermiera e vado a pesarmi ogni notte.
Calo un chilo al giorno. La marcia di avvicinamento alla morte è regolare”. Mi
guardava con una fissità negli occhi disperante. Lui narciso talvolta fino al
disgusto, mi mostrava la carne flaccida delle sue braccia. Pagò tutto, giorno
per giorno, notte per notte, in una sofferenza così nitida, così terribile con
la precisa coscienza che tutto era ormai ineluttabile. Un giorno mi fece
chinare sul letto: “Non puoi dirmi di no. E’ l’ultimo favore che ti chiedo:
accompagna qui Togliatti. Debbo parlargli: dieci minuti”. Andai da Togliatti.
Stranamente questi accettò subito al primo accenno. L’indomani venne in clinica
da Malaparte e stettero soli per un’ora. Quando Togliatti uscì dalla stanza era
visibilmente colpito: “Ha voluto la tessera del partito -mi disse- e io gliel’ho
data, anche se tu mi avevi detto di no”. Con me, al capezzale di Malaparte
stava sempre anche padre Rotondi, il confessore di Pio XII. Malaparte diceva,
indicandoci agli altri, quando riusciva a essere lui: “Il diavolo e l’acqua
santa; ma il diavolo ha gli occhi di un cagnone buono”. Padre Rotondi lo
battezzò, confessò, comunicò due giorni prima che morisse. Qualcuno allora
scrisse, con il solito buon gusto dei cinici, che andavamo a gara per
contendercelo. Per quanto mi riguardava, io ero là soltanto perché sentivo
affetto per quell’uomo così disarmato e così solo, non certo per ragioni di
partito. All’ultimo giorno, già sotto la tenda a ossigeno, Malaparte riuscì
ancora a dirmi: “Non sgridarmi, l’ho fatto sperando di guarire”. Anche in
quella conversione era stato Malaparte, fino alla fine. (Meditazione su: Curzio
Malaparte: maledetto amico da “Poesia come pane” di Davide Lajolo).
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