VERSO IL GENOCIDIO
venerdì, 25 marzo 2011
la colomba della pace di Picasso.
VERSO IL GENOCIDIO
Vorrete scusare qualche mia imprecisione o incertezza terminologica. La materia, si è premesso, non è letteraria, e disgrazia o fortuna vuole che io sia un letterato, e che, perciò, non possegga soprattutto linguisticamente i termini per trattarla. E ancora una premessa: ciò che dirò non è frutto di un’esperienza politica nel senso specifico, e per così dire professionale della parola, ma di un’esperienza che direi quasi esistenziale. La mia tesi è molto pessimistica, acremente e dolorosamente critica. Essa ha come tema conduttore il genocidio: ritengo cioè che la distruzione e sostituzione di valori nella società italiana di oggi porti, anche senza carneficine e fucilazioni di massa, alla soppressione di larghe zone della società stessa. Non è del resto un’affermazione totalmente eretica o eterodossa. C’è già nel Manifesto di Marx un passo che descrive con chiarezza e precisione estreme il genocidio ad opera della borghesia verso determinati strati delle classi dominate, soprattutto non operai, ma sottoproletari o certe popolazioni coloniali. Oggi l’Italia sta vivendo in maniera drammatica per la prima volta questo fenomeno: larghi strati, che erano rimasti per così dire fuori della storia – la storia del dominio borghese e della rivoluzione borghese – hanno subito questo genocidio, ossia questa assimilazione al modo e alla qualità della vita della borghesia. Come avviene questa sostituzione di valori? Io sostengo che oggi essa avviene clandestinamente, attraverso una sorta di persuasione occulta. Mentre ai tempi di Marx era ancora la violenza esplicita, aperta, la conquista coloniale, l’imposizione violenta, oggi i modi sono molto più sottili, abili e complessi, il processo è molto più tecnicamente maturo e profondo. I nuovi valori vengono sostituiti a quelli antichi di soppiatto, forse non occorre nemmeno dichiararlo dato che i grandi discorsi ideologici sono pressoché sconosciuti alle masse (la televisione, per fare un esempio su cui tornerò, non ha certo diffuso il discorso di Cefis agli allievi dell’Accademia di Modena). Mi spiegherò meglio tornando al mio solito modo di parlare, da letterato. In questi giorni sto scrivendo il passo di una mia opera in cui affronto questo tema in modo appunto immaginoso, metaforico (La Divina Mimesis): immagino una specie di discesa agli inferi, dove il protagonista, per fare esperienza del genocidio di cui parlavo, percorre la strada principale di una borgata, di una periferia di una grande città meridionale, probabilmente Roma, e gli appare una serie di visioni ciascuna delle quali corrisponde a una delle strade trasversali che sboccano su quella centrale. Ognuna di esse è una specie di bolgia, di girone infernale della Divina Commedia: all’imbocco c’è un determinato modello di vita messo lì di soppiatto dal potere, al quale soprattutto i giovani, e più ancora i ragazzi, che vivono nella strada, si adeguano rapidamente. Essi hanno perduto il loro antico modello di vita, quello che realizzavano vivendo e di cui in qualche modo erano contenti e persino fieri anche se implicava tutte le miserie e i lati negativi che c’erano ed erano e adesso cercano di imitare il modello nuovo messo lì dalla classe dominante di nascosto. Naturalmente io elenco tutta una serie di modelli di comportamento, una quindicina, corrispondenti a dieci gironi e cinque bolgie. Accennerò, per brevità, solo a tre; ma premetto ancora che la mia è una città del centro-sud, e il discorso vale solo relativamente per la gente che vive a Milano, a Torino, a Bologna, ecc. Per esempio, c’è il modello che presiede a un certo edonismo interclassista, il quale impone ai giovani che incoscientemente lo imitano di adeguarsi nel comportamento, nel vestire, nelle scarpe, nel modo di pettinarsi o di sorridere, nell’agire o nel gestire a ciò che vedono nella pubblicità, poniamo in quella televisiva, dei grandi prodotti industriali: pubblicità che si riferisce quasi razzisticamente, al modo di vita piccolo-borghese. I risultati sono evidentemente penosi, perché un giovane povero di Roma non è ancora in grado di realizzare questi modelli, e ciò crea in lui ansie e frustrazioni che lo portano alle soglie della nevrosi. Oppure c’è il modello della falsa tolleranza, della permissività. Nelle grandi città e nelle campagne del centro-sud vige ancora un certo tipo di morale popolare, piuttosto libero, certo, ma con tabù che erano suoi e non della borghesia, non l’ipocrisia ad esempio ma semplicemente una sorta di codice a cui tutto il popolo si atteneva; a un certo punto il potere ha avuto bisogno di un tipo diverso di suddito, che fosse prima di tutto un consumatore, e non era un consumatore perfetto se non gli si concedeva una certa permissività nel campo sessuale. Ma anche a questo modello il giovane dell’Italia arretrata cerca di adeguarsi in modo goffo, disperato e sempre nevrotizzante. O un terzo modello, quello che chiamo dell’afasia, della perdita di capacità linguistica. Tutta l’Italia centro-meridionale aveva proprie tradizioni regionali, o cittadine, di una lingua viva, di un dialetto che era una lingua vivente, rinsanguata da continue invenzioni, e all’interno di questi dialetti, di gerchi ricchi di invenzioni quasi poetiche, e vi contribuivano tutti, giorno per giorno, ogni serata nasceva una battuta nuova, una spiritosaggine, una parola imprevista; c’era una meravigliosa vitalità linguistica. Il modello messo lì dalla classe dominante lo ha bloccati linguisticamente: a Roma, per esempio, non si è più capaci di inventare, si è caduti in una specie di nevrosi afasica; o si parla una lingua fiorita, che non conosce difficoltà e resistenze, come se tutto fosse facilmente parlabile, ci si esprime come nei libri stampati, oppure si arriva addirittura alla vera e propria afasia nel senso clinico della parola; si è incapaci di inventare metafore e movimenti linguistici reali, quasi si mugola, o ci si danno spintoni, o si sghignazza senza saper dire altro. Questo solo per dare un breve riassunto della mia visione infernale, che purtroppo io vivo esistenzialmente. Perché questa tragedia in almeno in due terzi d’Italia? Perché questo genocidio dovuto all’acculturazione imposta subdolamente dalle classi dominanti? Ma perché la classe dominante ha scisso nettamente <<progresso>> e <<sviluppo>>. A essa interessa solo lo sviluppo, perché solo da lì trae i suoi profitti. Bisogna farla una buona volta una distinzione drastica tra i due termini <<progresso>> e <<sviluppo>>. Si può concepire uno sviluppo senza progresso, cosa mostruosa che è quella che viviamo in circa due terzi d’Italia: ma in fondo si può concepire anche un progresso senza sviluppo, come accadrebbe se in certe zone contadine si applicassero nuovi modi di vita culturale e civile anche senza, o con un minimo di sviluppo materiale. Quello che occorre – ed è qui a mio parere il ruolo del partito comunista e degli intellettuali progressivi – è prendere coscienza di questa dissociazione atroce e rendere coscienti le masse popolari perché appunto essa scompaia, e sviluppo e progresso coincidano. Qual è invece lo sviluppo che questo potere vuole? Se volete capirlo meglio, leggete quel discorso di Cefis agli allievi di Modena che citavo prima, vi troverete una nozione di sviluppo, come potere multinazionale – o transnazionale come dicono i sociologi – appoggiato fra l’altro su un esercito non più nazionale, tecnologicamente avanzatissimo ma estraneo alla realtà del proprio paese. Tutto questo dà un colpo di spugna al fascismo tradizionale, che si fondava sul nazionalismo o sul clericalismo, vecchi ideali, naturalmente falsi; ma in realtà viene avanti una forma di fascismo completamente nuova e ancora più pericolosa. Mi spiego meglio. E’ in corso nel nostro paese questa sostituzione di valori e di modelli, sulla quale hanno avuto grande peso i mezzi di comunicazione di massa e in primo luogo la televisione. Con questo non sostengo affatto che tali mezzi siano in sé negativi: sono anzi d’accordo che potrebbero costituire un grande strumento di progresso culturale; ma finora sono stati, così come li hanno usati, un mezzo di spaventoso regresso, di sviluppo appunto senza progresso, di genocidio culturale per due terzi almeno degli italiani. Visti in questa luce, anche i risultati del 12 maggio contengono un elemento di ambiguità. Secondo me ai <<no>> ha contribuito potentemente anche la televisione, che ad esempio in questi vent’anni ha nettamente svalutato ogni contenuto religioso: oh sì, abbiamo visto spesso il Papa benedire, i cardinali inaugurare, processioni e funerali, ma erano fatti controproducenti ai fini della coscienza religiosa. Di fatto, avveniva invece, almeno a livello inconscio, un profondo processo di laicizzazione, che consegnava le masse del centro-sud al potere dei mass-media e attraverso questi all’ideologia reale del potere, all’edonismo del potere consumistico. Per questo mi è accaduto di dire – in maniera troppo violenta ed esagitata, forse – che nel <<no>> vi è una doppia anima: da una parte un progresso reale e cosciente, in cui i comunisti e la sinistra hanno avuto un grande ruolo; dall’altra un italiano che accetta il divorzio per le esigenze laicizzanti del potere borghese, perché chi accetta il divorzio è un buon consumatore. Ecco perché, per amore di verità e per senso dolorosamente critico, io posso giungere anche a una previsione di tipo apocalittico, ed è questa: se dovesse prevalere, nella massa dei <<no>>, la parte che vi ha avuto il potere, sarebbe la fine della nostra società. Non accadrà, perché appunto in Italia c’è un forte partito comunista, c’è una intellighentsia abbastanza avanzata e progressista; ma il pericolo c’è. La distruzione di valori in corso non implica una immediata sostituzione di altri valori, col loro bene e il loro male, col necessario miglioramento del tenore di vita e insieme un reale progresso culturale. C’è, nel mezzo, un momento di imponderabilità ed è appunto quello che stiamo vivendo; e qui sta il grande, tragico pericolo. Pensate a cosa può significare in queste condizione una recessione, e vi corre un brivido se vi si affaccia anche per un istante il parallelo – forse arbitrario, forse romanzesco – con la Germania degli anni trenta. Qualche analogia il nostro processo di industrializzazione degli ultimi dieci anni con quello tedesco di allora ce l’ha: fu in tali condizioni che il consumismo aprì la strada, con la recessione del ‘20, al nazismo. Ecco l’angoscia di un uomo della mia generazione che ha visto la guerra, i nazisti, le ss, che ne ha subito un trauma mai totalmente vinto. Quando vedo intorno a me giovani che stanno perdendo gli antichi valori popolari e assorbono i modelli imposti dal capitalismo, e rischiano una forma di disumanità, una forma di atroce afasia, una assenza di capacità critiche, una passività, ricordo che erano le forme tipiche delle ss e vedo stendersi sulle nostre città l’ombra orrenda della croce uncinata. Una visione apocalittica, certamente, la mia. Ma accanto ad essa e all’angoscia che la produce vi è in me un elemento di ottimismo, il pensiero cioè che esiste la possibilità di lottare contro tutto questo. -Pier Paolo Pasolini, settembre 1974.
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Solo per oggi cercherò di vivere alla giornata senza voler risolvere i problemi della mia vita tutti in una volta.
Solo per oggi avrò la massima cura del mio aspetto: vestirò con sobrietà, non alzerò la voce, sarò cortese nei modi, non criticherò nessuno, non cercherò di migliorare o disciplinare nessuno tranne me stesso.
Solo per oggi sarò felice nella certezza che sono stato creato per essere felice non solo nell’altro mondo, ma anche in questo.
Solo per oggi mi adatterò alle circostanze, senza pretendere che le circostanze si adattino ai miei desideri.
Solo per oggi dedicherò dieci minuti del mio tempo a sedere in silenzio ascoltando Dio, ricordando che come il cibo è necessario alla vita del corpo, così il silenzio e l’ascolto sono necessari alla vita dell’anima.
Solo per oggi, compirò una buona azione e non lo dirò a nessuno.
Solo per oggi mi farò un programma: forse non lo seguirò perfettamente, ma lo farò. E mi guarderò dai due malanni: la fretta e l’indecisione.
Solo per oggi saprò dal profondo del cuore, nonostante le apparenze, che l’esistenza si prende cura di me come nessun altro al mondo.
Solo per oggi non avrò timori. In modo particolare non avrò paura di godere di ciò che è bello e di credere nell’Amore.
Posso ben fare per 12 ore ciò che mi sgomenterebbe se pensassi di doverlo fare tutta la vita.
-Angelo Giuseppe Roncalli: Papa Giovanni XXIII-
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