AERONAUTA
sabato, 27 novembre 2010
AERONAUTA
Nei miei primi giorni di giornalismo, ero redattore di un
giornale precursore di molti periodici, oggi popolarissimi. La nostra
specialità era di unire l’utile al dilettevole: quanto a ciò che doveva essere
ritenuto dilettevole o utile, il lettore ci pensava da sé. Davamo consigli
intorno al matrimonio, consigli lunghi e gravi, che, se fossero stati sentiti,
avrebbero fatto dei nostri lettori l’invidia dell’intero mondo coniugale.
Insegnavamo agli associati come arricchire con l’allevamento dei conigli,
citando fatti e cifre. La cosa che li doveva sorprendere era, per qual ragione
mai noi non rinunciassimo al giornalismo per metterci ad allevare conigli.
Dicevamo ai lettori quanti calvi v’erano in Islanda, e, per quel che se ne
sapeva, le nostre cifre potevano essere esatte; quante aringhe rosse messe
l’una dietro l’altra ci sarebbero volute per arrivare da Londra a Roma; cosa
che doveva essere utile a qualcuno desideroso di schierare una linea di aringhe
rosse da Londra a Roma, il quale era così messo in grado di ordinarne il numero
necessario. Quante parole dice in media una donna al giorno; e simili altri soggetti
di istruzione intesi a erudire e sublimare i nostri lettori, ad esclusione di
quelli di altri periodici. Insegnavamo il modo di curare le convulsioni dei
gatti. Personalmente non credo, e non credevo neppure allora, che si possano
curare le convulsioni dei gatti. Se io avessi un gatto soggetto a convulsioni,
lo metterei in vendita con un annuncio, o lo regalerei. Ma era nostro dovere
rispondere alle richieste di informazioni. Uno sciocco scrisse, desiderando dei
lumi sull’argomento; e io passai tutta una mattinata a cercare la letteratura
relativa. Trovai finalmente ciò che mi occorreva in fondo a un vecchio libro di
cucina. Che ci facesse lì, non ho mai potuto comprendere. Non aveva proprio
nulla a che fare con l’argomento del libro: non vi era alcun suggerimento sul
modo di fare con un gatto un intingolo saporito, dopo averlo curato dalle
convulsioni. L’autrice aveva buttato lì quel paragrafo per pura generosità.
Posso dire soltanto che avrei voluto fosse stato omesso, perché fu causa di
molta irosa corrispondenza e della perdita di quattro abbonati se non più. Il
lettore ci scrisse che, per aver seguito il nostro consiglio, aveva riportato
due sterline di danno nelle stoviglie di cucina, senza contare la finestra
rotta e in lui un probabile avvelenamento del sangue; mentre poi per le
convulsioni del gatto erano peggiori di prima. Eppure era una ricetta
abbastanza semplice. Si pigliava il gatto fra le zampe, pian piano, in modo da
non fargli male, e con un paio di forbici gli si faceva un taglio rapido e
netto alla coda. Non da troncargliene una parte ( anzi bisognava badare a non
commettere un errore simile ); da farvi soltanto un’incisione. Come spiegammo
al lettore, il posto adatto per l’operazione sarebbe stato il giardino o la
cantina; soltanto un idiota avrebbe tentato di fare l’operazione in cucina, e
senza un assistente.
Davamo anche consigli sull’etichetta. Dicevamo come
rivolgersi ai pari d’Inghilterra e ai grandi dignitari della Chiesa; anche come
mangiare la minestra. Impartivamo istruzioni ai giovani timidi sul modo di
mostrarsi disinvolti nei salotti eleganti. Insegnavamo a danzare ad entrambi i
sessi con l’aiuto di diagrammi. Risolvevamo i dubbi religiosi dei lettori, e li
fornivamo di un codice morale che avrebbe fatto onore a una finestra istoriata.
Il giornale non era finanziariamente una speculazione: era nato un po’ prima
del tempo, e quindi la nostra redazione era limitata. Il mio ramo, ricordo,
comprendeva i consigli alle madri!… Li scrivevo con l’aiuto della mia padrona
di casa, la quale, avendo divorziato dal marito e sepolto quattro figli,
costituiva certo una vera autorità in fatto di faccende domestiche: consigli
sull’arredamento e le decorazioni domestiche con disegni; una colonna di consigli
letterari i principianti… M’auguro sinceramente che la mia guida si sia
dimostrata per loro più utile di quanto non sia stata per me; come anche il
nostro articolo settimanale sincere parole ai giovani, firmate zio Enrico, con
larga e varia esperienza, e un fiducioso atteggiamento verso la crescente
generazione. Nella sua lontana giovinezza anche lui aveva incontrato delle
difficoltà ed egli ne sapeva qualche cosa. Anche oggi rileggo qualche volta i
consigli dello zio Enrico, e, benché non spetti a me il dirlo, mi sembrano
consigli buoni e assennati. Penso che se avessi strettamente seguito i consigli
di zio Enrico, sarei stato più saggio, avrei commesso meno errori, e mi
sentirei molti più soddisfatto di quanto ora lo sia. Una tranquilla e stanca
donnina, che aveva una camera in periferia, e il marito al manicomio, redigeva
la nostra colonna di cucina, i consigli sull’educazione, il giornale abbondava
di notizie utili, e una pagina e mezza di notizie sulla moda, scritti tutti nel
vivace stile personale che non è ancora interamente scomparso, a quanto mi
dicono, dal giornalismo moderno. Debbo dirvi della divina gonna che portai al
tè danzante del conte J. La settimana scorsa mi disse… ma ecco, io non debbo
ripetere tutto quello che dice quello sciocco; egli è troppo sciocco… e la cara
contessa, immagino, era appunto un tantino gelosa… e così di seguito. Povera
donna! La veggo ancora nella sua frusta vestaglia di alpaca grigia, macchiata
d’inchiostro. Ricordo che il nostro direttore, uno degli uomini più ignoranti
ch’io abbia mai incontrato, un giorno, nella piccola posta, informò gravemente
un lettore che Ben Johnson aveva scritto Rabelais per pagare il funerale della
madre. Egli, che si metteva a ridere divertito quando gli si indicavano gli
errori che commetteva, scriveva con l’aiuto di una enciclopedia le pagine
dedicate alle informazioni generali e, dopo tutto, le faceva abbastanza bene;
mentre il fattorino, per mezzo di un eccellente paio di forbici, redigeva la
rubrica motti e facezie. Il lavoro era pesante, e lo stipendio leggero; ciò che
ci sosteneva era la coscienza che ci dedicavamo all’istruzione e all’educazione
dei nostri simili. Un giorno un tale, firmandosi Aeronauta ci aveva scritto
interrogandoci sulla composizione dell’idrogeno. E’ facile fabbricarlo, almeno
come appresi dopo essermi erudito sull’argomento alla Biblioteca Nazionale;
pure avvertii Aeronauta, chiunque esso fosse, di prendere tutte le precauzioni
necessarie contro eventuali disgrazie. Che si poteva fare di più? Dieci giorni
dopo, una signora dal florido viso entrò nell’ufficio, conducendo per mano ciò
che, essa spiegò, era suo figlio, di dodici anni. Il viso del ragazzo era senza
espressione fino a un grado veramente notevole. La madre lo spinse innanzi e
gli tolse il cappello, e poi capii la ragione perché egli non aveva le ciglia,
e perché dei capelli non gli era rimasta nient’altro che certa polvere triste,
la quale dava alla testa l’aspetto di un uovo lesso sgusciato, sparso di pepe
nero. Fino alla settimana scorsa egli era un bel ragazzo, con capelli
naturalmente ricci notò la signora, che parlava con inflessione crescente come
per avvertire che le cose qui incominciavano. Che gli era accaduto? Chiese il
nostro capo. Ecco cosa gli è accaduto, ribatte la signora. Trasse dal manicotto
una copia del numero della settimana antecedente, col mio articolo
sull’idrogeno segnato a matita e lo gettò sul tavolo. Il nostro capo prese il
giornale e lesse attentamente l’articolo. Era lui l’Aeronauta? Chiese il capo.
Era Aeronauta, ammise la signora. Povero, innocente ragazzo, e ora guardatelo!
Forse gli cresceranno di nuovo suggerì il nostro capo. Forse sì ribattè la
signora, in tono che continuava a salire. E forse no. Ma voglio sapere che
farete per lui. Il nostro capo cosigliò un lavacro del cranio. Pensai sulle
prime che la donna stesse per scagliarglisi addosso; ma per il momento si
limitò alle parole. Sembra che non pensasse a lavacri di sorta, ma a un
compenso pecuniario. Fece anche delle osservazioni generali sull’indole del
nostro giornale, sulla sua utilità, sul suo diritto al pubblico aiuto, sul
sentimento e la saggezza dei collaboratori. Veramente non veggo che la colpa
sia nostra, aggiunse il nostro capo, che era di maniere tranquille. Egli ha
chiesto delle notizie e le ha avute. Non tentate di prendere la cosa per
escherzo, disse la signora (son certo che egli non intendeva scherzare; la
leggerezza non era il suo difetto) o avrete qualche cosa che non volete… Sarei
capace, disse la signora, con una risoluzione che ci fece correre, come pulcini
inseguiti, dietro le nostre sedie rispettive di venir qui a ridurvi la testa
allo stesso modo. Aggiunse anche delle osservazioni sull’aspetto personale del
nostro capo, osservazioni di molto cattivo gusto. A ogni modo era una donna
bene educata. Quanto a me, sono di opinione che se avesse intentato il processo
che minacciava, ci avrebbe rimesso le spese; ma il nostro capo era una persona
che aveva esperienza della legge e il suo principio era di evitarla sempre: io
l’avevo udito dire: Se uno mi fermasse per via e mi domandasse l’orologio,
rifiuterei di darglielo. Se minacciasse di prenderselo a viva forza, sento che
dovrei, pur non essendo un uomo bellicoso, fare del mio meglio per protegger la
mia proprietà privata. Se, d’altra parte, egli affermasse la sua intenzione di
cercar di ottenere l’orologio con una azione legale, lo tirerei fuori di tasca
e glielo darei, pensando di cavarmela a buon mercato. Egli definì la faccenda
con la signora dal viso florido con un biglietto di cinque sterline, che rappresentava,
certo, un mese dei lucri del giornale; ed essa se ne andò tenendo per mano la
prole danneggiata. Dopo che se ne fu andata, il nostro capo mi disse con
soavità: Non credere che io ti rimproveri minimamente. La colpa non è tua: è
del destino. Limitati ai consigli morali e letterari. Non provarti nelle
nozioni utili… Vorrei aver seguito sempre il suo consiglio; avrei risparmiato a
me e ad altra gente molti disturbi. -Jerome Klapka Jerome, novella da Nozioni
utili.
IL GATTO DELLA CASA
Entra per una porta
per un finestrino
per una finestra, se te la scordi aperta
quando meno te l’aspetti.
Per (sopra) i tetti
da una terrazza all’altra
si lascia sdrucciolare per la cappa del camino
e neanche te n’accorgi
quando è entrato:
per (sopra) il cornicione
plòffete nel balcone
e fa colazione
nella cucina tua.
E’ il gatto della casa.
Padrone non ne ha.
Non è che gli voglian male
ma lui lo sa
che neanche gli voglion bene.
Ti guarda con due occhi spiritati
sospettoso.
Ne ha avute scarpe dietro, e inseguimenti:
è ladra.
Povera bestiolina, cosa ha da fare?
E’ ladro, perché vuole mangiare.
E’ ladro…
Questo dice la gente;
ma io non ci credo perché, dammi retta:
tu lasci in cucina,
che so io…
una salsiccia?…
lasciala involta
in un bel biglietto da mille lire.
Torna l’indomani:
il biglietto – che credi? – lo ritrovi
Magari unto
ma è là.
-Edoardo De Filippo-
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