ELITES Bis
giovedì, 15 luglio 2010
ELITES Bis
Erano belle piene le calze appese vicino al caminetto; in quella rossa sul cartellino c’era scritto il mio nome; come da bambino mi batteva il cuore e non potevo aspettare dopo la colazione; veloce slacciai la chiusura: due pezzi di carbone vero e tre di zucchero nero, un sacchetto di noccioline, sette noci, due arance, tre mandarini, una tavoletta di cioccolata amara. Ma in fondo, per ultima, la gradita sorpresa di un libro mai visto prima: Facce da schiaffi, corsivi al vetriolo di un comunista impenitente. BUR Rizzoli, 2009. Grazie! Cara Befana. Quello di Fortebraccio era sempre il primo articolo che leggevo:
POCHISSIMI
Dobbiamo dire che una delle ragioni per le quali siamo personalmente sempre più contenti (se ci è permessa questa espressione) dei giovani pretori, quelli di questi giorni e quelli dei mesi o anni passati, è che essi ci danno almeno una soddisfazione al giorno. L’ultima, che è dell’altro ieri, ci viene dal pretore genovese Almerighi il quale, affiancato dai colleghi Sansa e Brusco, (Tra il 1973 e il 1974 i pretori Mario Almerighi, Carlo Brusco e Adriano Sansa conducono un’inchiesta sul finanziamento illecito ai partiti di governo da parte di alcuni dei maggiori petrolieri. Nell’indagine sono coinvolti numerosi esponenti della maggioranza) ha detto ai giornalisti: Si è esagerato a parlare di casse di documenti. Ritengo che saranno sufficienti due o tre giorni per esaminare tutto l’incartamento (Il Giorno di ieri). Ora, i sistemi adottati da questa Italia delle nostre classi dirigenti per affossare gli scandali in cui si trova coinvolta, sono due: minimizzare e massimizzare. (I due verbi sono orrendi, ma ci capiamo.) Minimizzare: quando si scopre una magagna, si dice subito che è tutta una montatura, possibilmente dei comunisti. C’è ben poco di vero, sono tutte esagerazioni, è una speculazione (delle sinistre) indegna, all’estero succede ben di peggio, siamo di fronte al solito tentativo marxista di gettare fango su tutto, viva l’Italia. Questo è il giuoco del minimizzare, il quale, essendo divenuto frusto per il lungo uso, viene sempre più sostituito, ora, da quello del massimizzare. Ossia: ecco, dopo le bobine Spagnuolo, dopo Spagnuolo il golpe, dopo il golpe i petrolieri. (Fortebraccio fa riferimento ad alcuni scandali relativi a intercettazioni, aste truccate e infliltrazioni mafiose nella capitale, emersi nei primi mesi del 1974.) Niente sta più in piedi, ci siamo dentro tutti, anche le donne e i bambini, anche lei, sì anche lei, non c’è più niente da fare, va tutto per aria, è un macello, una catastrofe, chiudiamo e speriamo solo nel Cielo. Del, resto, scusi, da dove vorrebbe incominciare? In questa Apocalisse, i documenti, centoventi casse di documenti, trentamila pagine, duecentomila pagine, sei milioni e mezzo di pagine. Così i ladri, i corruttori, i falsari, in attesa che i giudici leggano quei tre o quattro miliardi di pagine, stanno fuori, seguitano a rubare e moriranno di vecchiaia e di sonno. Ecco, invece, il pretore Almerighi e i suoi colleghi che dicono: sono poche paginette, faremo prestissimo. Bravo, signor giudice. E appena finito di leggere, ne metta dentro pochi, signor Pretore, pochissimi, ma buoni. E ci raccomandiamo che non ci sia, per quanto improbabile, un innocente, se no, con lui, vengono fuori tutti i ladri. Scelga i migliori, signor Pretore. Per combattere davvero la delinquenza, non c’è di meglio che cominciare, come si dice, dalle élites. - Fortebraccio – - 6 febbraio 1974 -
CANTO VENTESIMOPRIMO-parte-
Così di ponte in ponte, altro parlando che la mia comedìa cantar non cura, venimmo; e tenavamo il colmo, quando restammo per veder l’altra fessura di Malebolge e li altri pianti vani; e vidila mirabilmente oscura. Quale ne l’arzanà de’ Viniziani bolle l’inverno la tenace pece a rimpalmare i legni lor non sani, ché navicar non ponno – in quella vece chi fa suo legno novo e chi ristoppa le coste a quel che più viaggi fece; chi ribatte da proda e chi da poppa; altri fa remi e altri volge sarte; chi terzeruolo e artimon rintoppa -; tal, non per foco, ma per divin’arte, bollia là giuso una pegola spessa, che ‘nviscava la ripa d’ogne parte. I’ vedea lei, ma non vedea in essa mai che le bolle che ‘l bollor levava, e gonfiar tutta, e riseder compressa. Mentr’io là giù fisamente mirava, lo duca mio, dicendo «Guarda, guarda!», mi trasse a sé del loco dov’io stava. Allor mi volsi come l’uom cui tarda di veder quel che li convien fuggire e cui paura sùbita sgagliarda, che, per veder, non indugia ‘l partire: e vidi dietro a noi un diavol nero correndo su per lo scoglio venire. Ahi quant’elli era ne l’aspetto fero! e quanto mi parea ne l’atto acerbo, con l’ali aperte e sovra i piè leggero! L’omero suo, ch’era aguto e superbo, carcava un peccator con ambo l’anche, e quei tenea de’ piè ghermito ‘l nerbo. =================================================== Del nostro ponte disse: “O Malebranche, ecco un de li anzian di Santa Zita! Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche a quella terra, che n’è ben fornita: ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo; del no, per li denar, vi si fa ita». Là giù ‘l buttò, e per lo scoglio dur si volse; e mai non fu mastino sciolto con tanta fretta a seguitar lo furo. Quel s’attuffò, e tornò sù convolto; ma i demon che del ponte avean coperchio, gridar: «Qui non ha loco il Santo Volto: qui si nuota altrimenti che nel Serchio! Però, se tu non vuo’ di nostri graffi, non far sopra la pegola soverchio». Poi l’addentar con più di cento raffi, disser: «Coverto convien che qui balli, sì che, se puoi, nascosamente accaffi». Non altrimenti i cuoci a’ lor vassalli la carne con li uncin, perché non galli. Lo buon maestro «Acciò che non si paia che tu ci sia», mi disse, «giù t’acquatta dopo uno scheggio, ch’alcun schermo t’aia; e per nulla offension che mi sia fatta, non temer tu, ch’i’ ho le cose conte, perch’altra volta fui a tal baratta». Poscia passò di là dal co del ponte; e com’el giunse in su la ripa sesta, mestier li fu d’aver sicura fronte. Con quel furore e con quella tempesta ch’escono i cani a dosso al poverello che di sùbito chiede ove s’arresta, e volser contra lui tutt’i runcigli; ma el gridò: «Nessun di voi sia fello! Innanzi che l’uncin vostro mi pigli, traggasi avante l’un di voi che m’oda, e poi d’arruncigliarmi si consigli». Tutti gridaron: «Vada Malacoda!»; per ch’un si mosse – e li altri stetter fermi -, e venne a lui dicendo: «Che li approda?» «Credi tu, Malacoda, qui vedermi esser venuto», disse ‘l mio maestro, «sicuro già da tutti vostri schermi, sanza voler divino e fato destro? Lascian’andar, ché nel cielo è voluto ch’i’ mostri altrui questo cammin silvestro». Allor li fu l’orgoglio sì caduto, ch’e’ si lasciò cascar l’uncino a’ piedi, e disse a li altri: «Omai non sia feruto». E ‘l duca mio a me: «O tu che siedi tra li scheggion del ponte quatto quatto, sicuramente omai a me ti riedi». Per ch’io mi mossi, e a lui venni ratto; e i diavoli si fecer tutti avanti, sì ch’io temetti ch’ei tenesser patto; così vid’io già temer li fanti ch’uscivan patteggiati di Caprona, veggendo sé tra nemici cotanti. I’ m’accostai con tutta la persona lungo ‘l mio duca, e non torceva li occhi da la sembianza lor ch’era non buona. Ei chinavan li raffi e «Vuo’ che ‘l tocchi», diceva l’un con l’altro, «in sul groppone?» E rispondien: «Sì, fa che gliel’accocchi!» Ma quel demonio che tenea sermone col duca mio, si volse tutto presto, e disse: «Posa, posa, Scarmiglione!» Io mando verso là di questi miei a riguardar s’alcun se ne sciorina; gite con lor, che non saranno rei». «Tra’ti avante, Alichino, e Calcabrina», cominciò elli a dire, «e tu, Cagnazzo; e Barbariccia guidi la decina. Libicocco vegn’oltre e Draghignazzo, Cirïatto sannuto e Graffiacane e Farfarello e Rubicante pazzo. Cercate ‘ntorno le boglienti pane; costor sian salvi infino a l’altro scheggio che tutto intero va sovra le tane». «Omè, maestro, che è quel ch’i’ veggio?», diss’io, «deh, sanza scorta andianci soli, se tu sa’ ir; ch’i’ per me non la cheggio. Se tu se’ sì accorto come suoli, non vedi tu ch’e’ digrignan li denti, e con le ciglia ne minaccian duoli?» Ed elli a me: «Non vo’ che tu paventi; lasciali digrignar pur a lor senno, ch’e’ fanno ciò per li lessi dolenti». Per l’argine sinistro volta dienno; ma prima avea ciascun la lingua stretta coi denti, verso lor duca, per cenno; ed elli avea del cul fatto trombetta. - DANTE -
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