IL MITO DELL’INDIPENDENZA ECONOMICA

 

lunedì, 30 novembre 2009

IL MITO DELL’INDIPENDENZA ECONOMICA

Siamo in tempi di fiorente e dilagante nazionalismo: l’ideologia che alcuni anni or sono, sembrava perdere terreno, balocco più o meno innocente di letterati e giornalisti falliti, oggi ha rinnovato le sue forze e fa novella prova di sé. I letterati e i giornalisti vogliono diventare i maestri spirituali della nazione, e tengono cattedra di scienze economiche e politiche. Si sta elaborando un farraginoso corpus di nuove dottrine economiche, giustificate e sistemate secondo alcune idee fondamentali che sembrano essere accettate da gran parte del pubblico. Ecco una di queste idee: l’indipendenza economica, che sembra avere fortuna: dal programma di un rumoroso gruppo politico di minoranza è entrata nientemeno che nel Programma dell’Associazione fra le società italiane per azioni ove appare come la finalità suprema della vita e della politica economica del nostro paese nel prossimo avvenire. E chi non rifletta può ben credere che si tratti della necessaria integrazione del programma politico dell’indipendenza, perché le analogie si presentano facili e brillanti, e oltre a ciò alcune delle esperienze di questa guerra sembrano giustificare il bisogno che ogni nazione basti a se stessa. E’ ben vero che i teorici classici dell’economia ci avevano insegnato ad apprezzare i vantaggi della divisione del lavoro, e dimostrata la necessità della interdipendenza economica delle nazioni, ma i banditori delle nuove verità non sanno che fare delle teorie, si appellano ai fatti, i quali dovrebbero dare la più solenne smentita a quei visionari che si chiamano Smith e Ricardo. Interroghiamo dunque i fatti, seguendo le tracce di un ottimo articolo di U.Ricci apparso nel numero marzo-aprile della Riforma sociale.

Prima constatazione di fatto è questa: che non in ogni paese è possibile ottenere ogni genere di prodotti, e nemmeno in tutti quei prodotti che sono necessari alla soddisfazione dei bisogni primitivi dell’uomo. Tutto dipende dalle condizioni naturali, dal clima, dalle ricchezze del sottosuolo e via dicendo. Certamente anche in un paese nordico si possono far fruttare ad esempio gli agrumi, coltivandoli in serre apposite: si otterrà un costo di produzione dieci volte più elevato di quello che possono avere gli stessi frutti maturati naturalmente ai raggi del sole del Mezzogiorno, ma a chi mai verrebbe in mente di chiedere un dazio protettore contro le arance della Sicilia per poterne imprendere la coltivazione artificiale nel Piemonte o nella Lombardia? Qui l’assurdità è palese. L’indipendenza non potrà mai essere assoluta. I nostri teorici nazionalisti però non giungono, nelle conseguenze, a questi estremi; si limitano a proclamare la necessità di essere indipendenti per il rifornimento delle materie prime alle nostre industrie, e naturalmente sono convinti che queste materie prime esistono in Italia e in quantità tale, che se finora noi non siamo diventati uno dei primi paesi industriali del mondo, ciò è dovuto soltanto all’opera esiziale del perfido straniero che ci ha precluso questa via, e dei non meno perfidi economisti sognatori di astratte libertà, che sono stati i suoi naturali alleati. E qui diamo la parola ai fatti. Che cosa occorre per rifornire le industrie nazionali che stanno sì a cuore del nostro nazionalismo? Il ferro anzitutto e poi il carbone.

Orbene in una monografia riguardante le risorse mondiali di questo minerale presentata al Congresso internazionale di geologia di Stoccolma del 1910 l’Italia figura ultima tra le nazioni europee, possedendo appena una riserva effettiva di 6 milioni di tonnellate di minerale di ferro, e una riserva potenziale di 2 milioni. Secondo indagini recenti queste cifre dovrebbero essere portate a 20 e 50 milioni, che sono sempre ben misera cosa di fronte ai 3.608 milioni della Germania. Ai 3.300 della Francia, ai 1.300 della Gran Bretagna, ecc. che sono in fin dei conti il 0,05 per cento delle riserve europee che ammontano a 12.032 milioni. E non teniamo conto delle riserve degli Stati Uniti (4.258 milioni), e delle altre parti del mondo. Ma almeno potranno questi nostri 6 milioni o 20 che dir si voglia, bastare a lungo a rifornire una fiorente industria siderurgica e meccanica nazionale? Non mi pare nemmeno, poiché nel solo quinquennio 1910-1914 quasi 7 milioni di tonnellate si consumarono, di cui 4 di importazione e circa 3 di estrazione nazionale. Per quanti quinquenni si potrebbe andare avanti senza ricorrere allo straniero, dopo la guerra, con l’incremento enorme che dovranno prendere le industrie meccaniche per rifare tutto il patrimonio distrutto oggi in un modo o nell’altro?

E veniamo al carbone. Lo sviluppo di una fiorente industria siderurgica richiede molto carbone, specialmente se i nostri industriali intendono, come pare, continuare nella produzione della ghisa mediante altiforni. Ci sono bensì dei tecnici i quali consigliano di abbandonare questa produzione, di importare a preferenza la ghisa e i rottami di ferro e produrre l’acciaio mediante forni e convertitori elettrici, ma le energie elettriche sarebbero sufficienti a questo scopo? E poi, dove se ne andrebbe in questo caso l’indipendenza, o meglio dove andrebbero i guadagni onesti della siderurgia italiana? Ma il carbone occorre pure, occorre soprattutto per i trasporti terrestri e marittimi. Nel 1913 per questo scopo se ne consumarono 3.469.000 tonnellate, 3.340.000 per i bisogni delle industrie siderurgiche e metallurgiche, 2.230.000 tonnellate per altre industrie e agricoltura, ecc., in tutto più di 10 milioni di tonnellate. Dove piglieremo noi tutta questa grazia di Dio, se vorremo serbarci indipendenti? O arresteremo il progresso delle nostre industrie per non dover essere tributari allo straniero odiato?

Veramente in questi anni di guerra si è fatto un gran parlare delle ligniti che ci sarebbero in Italia, ma a dir vero in buona parte esse sono ancora una incognita. Se prima della guerra non si estraevano, è certo che ciò avveniva per la mancanza di convenienza, per l’alto costo di produzione, e lo scarso rendimento calorifico. Oggi la fervida fantasia del ministro Nitti è giunta a trovare nelle ligniti un sostituto del carbone, proclamando che la produzione di esse può essere in breve portata a 15,20 e anche 30 (!) milioni di tonnellate. Basti ricordare che nel 1913 se ne estrassero in Italia non più di 700.000 tonnellate e nel 1917, dopo due anni di guerra si è giunti appena a 1.800.000. E’ il caso di dire: campa cavallo che l’erba cresce. Per ora continuiamo ad aver bisogno del carbone dei nostri alleati. Ma che cosa non si crea con la fantasia? Si è trovato il caucciù nella foresta di Vallombrosa, e qualche studioso vede l’Italia trasformata nientemeno che in una grande produttrice di cotone. Gli 11.000 quintali di prodotti nel 1911 (si noti che nel 1886 erano 53.000, nel 1873 erano 70.000, ed erano 250.000 nel 1864, e che dunque si tratta di una cultura che va disparendo) dovrebbero diventare ben 7 milioni e mezzo di quintali, un quarto della produzione totale degli Stati Uniti. E’ un sogno però ben lontano dalla realizzazione. La realtà è che delle materie prime provenienti dall’estero noi per ora non possiamo fare a meno, e dunque non possiamo fare a meno del commercio internazionale.

Ma è poi un male questo? Lasciamo da parte i teoremi dell’economia, interroghiamo anche i fatti. Il Ricci ci porta l’esempio degli Stati Uniti, che per l’estensione stessa del territorio, per la varietà del clima e delle colture pare che dovrebbero essere indipendenti per i prodotti del suolo e del lavoro umano, dovrebbero avere in casa tutto quanto è loro necessario. Gli Stati Uniti producono un quinto del frumento, due terzi del cotone che si raccoglie in tutto il mondo, hanno enormi riserve di legname, ricchezze minerarie stragrandi (la ghisa che vi si produce è un quarto della produzione mondiale, vi si estrae il 26 per cento del carbone di tutto il mondo), riserve di petrolio immense (nel 1913 il 65 per cento della produzione mondiale). Eppure gli Stati Uniti hanno pure un grandissimo commercio di importazione, che nel 1913 raggiunse 1,8 miliardi di dollari, di fronte a 2,5 miliardi di esportazione. Gli Stati Uniti importano merci (caffè, zucchero, lana, seta, colori) che se volessero, potrebbero produrre da sé, ma a qual costo? A un costo ben più alto di quello delle merci simili in Europa o altrove. E allora perché sciupare le proprie energie in questo modo? Perché ad esempio intestardirsi a creare la grande industria siderurgica dove non esistono le condizioni favorevoli al suo sviluppo? Noi saremo sì dipendenti dello straniero per la ghisa e simili, ma allo straniero dovremo ben dare in cambio qualche cosa, e dunque anche lui sarà dipendente da noi. Ma come fare a sapere quali sono le produzioni naturali per il nostro paese, che cosa è che noi possiamo produrre con un costo inferiore, e che gli altri perciò dovranno acquistare per forza da noi?

Non è possibile dare altra risposta che questa: lasciare libere le forze economiche nella loro azione, ed esse non potranno che agire nel senso dell’utile massimo. Ma vi è forse qualcuno a cui ciò non conviene e all’utile massimo sociale preferisce gli utili massimi del suo gruppo. Qui però entrano in campo considerazioni di altra natura; oggi non abbiamo voluto fare altro che riferire dati oggettivi.

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AMMIRAZIONE
Spezzarti per portarti via
sarebbe troppo doloroso,
o fior di ciliegio:
piuttosto sotto i tuoi petali rosa
starò ad ammirarti, fino al tuo
appassire.
-No Akahito-
 

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