LOTTA ECONOMICA E GUERRA
martedì, 24 novembre 2009
LOTTA ECONOMICA E GUERRA
BICEFALO
VUOTO O CON IL CERVELLO? E … IL CUORE?
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Entro i confini dello Stato il protezionismo è lo strumento usato da alcune categorie di produttori per esercitare un privilegio a danno della maggioranza e dei produttori e dei consumatori. Esso ha per effetto di imporre alla vita economica un indirizzo diverso da quello che essa seguirebbe in regime di libertà. Da qui anzitutto una perdita di ricchezza sociale, per il fatto che, lasciate libere, le forze economiche tenderebbero ad organizzarsi in modo da realizzare il massimo utile possibile; ma la rottura dell’equilibrio interno ha le sue naturali ripercussioni sugli altri organismi economici, e determina un complesso di reazioni, nel campo economico e fuori di esso.
In regime di libertà le diverse nazioni tendono a integrarsi a vicenda, come si integrano e si completano, nella vita comune, le capacità dei diversi produttori. Chi ha acquistata la capacità di produrre una determinata categoria di beni, si specializza nella produzione di essi, e si procura gli altri beni che sono necessari, cedendo in cambio quelli che egli produce esclusivamente. Il danaro non è che il mezzo per facilitare questi scambi. Così è, o almeno dovrebbe essere anche nel commercio internazionale, il quale, quando ci si spogli di ogni preconcetto non economico, ci appare come un’operazione favorevole a entrambe le parti e che a entrambe conviene estendere e facilitare. E’ una forma di divisione del lavoro, è una attività essenzialmente pacifica. Le nazioni tendono a collaborare ad un unico scopo che è l’organizzazione di tutta la produzione secondo il principio della massima convenienza.
Le espressioni e le metafore di carattere guerresco che giornalmente si adoperano quando si parla di scambi internazionali non hanno un significato se non ci si mette da un punto di vista completamente opposto, e cioè, sembra dal punto di vista di alcuni gruppi di produttori i quali hanno interesse a cambiare le condizioni naturali degli scambi, eliminando la libera concorrenza tra le nazioni. La concorrenza non è un danno, ma è un vantaggio se la si considera dal punto di vista dell’interesse generale, ma il produttore il quale vuole realizzare guadagni senza compiere lo sforzo di organizzare la produzione nel modo economicamente più razionale vede, nello straniero che produce più a buon mercato e meglio, un nemico che gli toglie il mezzo di guadagnare senza lavorare. E vuole escluderlo dal suo mercato. Allora si comincia a dire che il mercato nazionale deve essere riservato alla produzione nazionale, e si giunge a concepire la nazione come un organismo, chiuso e che deve bastare a se stesso.
Questa mentalità fu predominante in Europa nei cinquant’anni che precedettero lo scoppio della guerra,
e ispirò una legislazione economica destinata soltanto a procurare lo sblocco ai prodotti di alcune industrie o di alcune culture privilegiate: politica di cui si può ripetere quello che ironicamente diceva A. Smith, che essa non è una politica di bottegai, ma è la politica di un governo che si trova sotto l’influenza di alcune classi di bottegai. Il primo campo che si sfrutta è il mercato nazionale, e per questo sono arma eccellente i dazi protettivi, ma le categorie di produttori privilegiati non si accontentano di esso, e forse non potrebbero accontentarsene, dati gli spostamenti di forze economiche che la protezione porta con sé.
Allettati da essa i capitali si accumulano rapidamente in quegli impieghi che i dazi rendono così facilmente produttivi, e si determina in breve una situazione da cui non si può uscire senza conquistare ai prodotti esuberanti degli sbocchi con mezzi non puramente economici. In Germania, nei decenni precedenti la guerra attuale, si calcola che la ricchezza industriale era basata per una buona metà sul credito, non era cioè una ricchezza reale, ma soltanto potenziale, che si sperava di realizzare, e non si poteva realizzare in altro modo che dando alle imprese una espansione sempre crescente. Questa direzione unilaterale delle forze produttive, e la conseguente vera febbre industriale devono collegarsi direttamente con l’artificiale equilibrio creato dalla protezione.
In tali condizioni non si parla più soltanto di nazionalismo, ma di espansionismo economico. Se prima era necessario tenere chiuso il mercato nazionale, ora occorre conquistare i mercati esteri, e la conquista avviene con mezzi assai svariati ma quasi tutti pseudo economici. Per i paesi meno progrediti si parlerà di concessioni commerciali e di colonizzazione nei suoi diversi sistemi; verso i paesi civili si fa uso di altre armi, della penetrazione industriale, delle differenziazioni di prezzi e via dicendo. Tutto ciò non è più fatto con intento di collaborare, ma con fine aperto di lottare per aprirsi quelle vie di maggiore espansione che si crede di vedere chiuse davanti a sé, vale a dire con uno scopo prettamente esclusivistico. E poco manca che non si giunga a vedere nel benessere altrui un danno proprio. In realtà in condizioni simili ( ed erano quelle dell’Europa prima che scoppiasse la guerra ) è assai facile a una parte dell’opinione pubblica lo sviarsi fino a non riuscire più a vedere l’utilità reciproca e di carattere cooperativo degli scambi. La vita economica si concepisce come una lotta tra le nazioni, la concorrenza diventa una vera guerra, e le ideologie bellicose acquistano un fondamento di realtà ben solida negli interessi antagonisti dei gruppi industriali. Da un lato la industria giovane si sente oppressa dalle sue rivali più progredite, dall’altra parte l’espansione appare come una necessità ineluttabile, un’alternativa di vita o di morte. Si parla allora di anello di ferro che stringe la nazione e le impedisce di prosperare, si parla di soffocamento economico e così via. Illusioni, certamente, ma illusioni che sono il modo comune di pensare e di esprimersi di una parte, più o meno disinteressata e cosciente, delle popolazioni, e hanno un valore tutt’altro che trascurabile nel determinare la formazione dell’altra “ grande illusione “ che nel mondo economico internazionale vi siano dei problemi che si debbono risolvere con la forza delle armi.
Quando si parla di cause economiche della guerra e si accenna all’antagonismo fra le più grandi nazioni, si dimentica di ricercare come si formi questa ideologia dell’antagonismo, la quale è economicamente un non senso. Certamente vi è dell’antagonismo, ma è quello di alcuni gruppi che sostituiscono l’interesse proprio a quello generale, e tendono a foggiare il mondo economico in modo rispondente soltanto a questi loro interessi. Le nazioni possono vivere e svilupparsi pacificamente l’una accanto all’altra, ma gli egoismi delle categorie di produttori privilegiati non possono fare a meno di cozzare l’uno contro l’altro e di provocare talora i più terribili effetti.
Coloro che dicono che la guerra ha per scopo di condurre a una migliore forma di organizzazione sociale, e di instaurare il regno della pace e del diritto, e la società delle nazioni, ma poi continuamente parlano di lotte economiche con criteri nazionalistici ed esclusivistici, di ritorsioni nel campo economico, di espansioni e così via, sono in intima contraddizione con se stessi. Essi non pongono le basi di una pacifica società tra le nazioni, ma gettano il seme di lotte future.
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CHI E’ L’ AUTORE E IN CHE ANNO E’ STATO SCRITTO L’ARTICOLO ?
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