LE RADICI DELLA NOSTRA LIBERTA'

domenica, 25 ottobre 2009

LE RADICI DELLA NOSTRA LIBERTA'

Discorso di Alessandro Natta pronunciato a Milano per il 4o° della Liberazione: Qui a Milano – che è stata il cuore e il cervello della lotta di liberazione – noi abbiamo voluto ricordare un evento da cui ha preso avvio una fase delle storia dell’Europa e dell’Italia, che sentiamo ancora aperta, viva, operante, e non consegnata solo alla memoria, all’indagine di studiosi, ai riti celebrativi, come un episodio remoto e ormai concluso. Con l’animo di chi è stato e resta profondamente convinto della necessità e della giustezza di quella lotta e del suo valore, con l’animo di chi non ha mai pensato, e non pensa oggi, che le promesse di allora sono state deluse; che la rivoluzione antifascista è stata tradita. Non abbiamo questi complessi, perché noi, sulla traccia di quella lotta e in coerenza ai suoi ideali e ai suoi programmi abbiamo continuato ad agire e a combattere, e sentiamo d’essere stati protagonisti del faticoso, difficile, ma indubitabile sviluppo economico, sociale e civile del nostro Paese. Non abbiamo le amarezze degli utopisti né le indifferenze superbe di chi guarda le cose tanto dall’alto, da credere che nemmeno le grandi rivoluzioni – da quella francese a quella d’Ottobre – abbiano mai cambiato nel profondo la realtà.

Noi non considerammo allora quella vittoria, quell’insurrezione dell’aprile ‘45 come un fatto risolutivo, quasi che bastasse osare un po’ di più per raggiungere di colpo altri e più avanzati traguardi rivoluzionari. E non consideriamo oggi le conquiste di quella lotta – la Repubblica, il regime democratico, la ricostruzione dei grandi partiti di massa, il programma costituzionale di rinnovamento della nostra società; gli impegni di progresso, di uguaglianza, di partecipazione piena delle classi lavoratrici alla direzione del Paese – come una piccola cosa, un episodio irrilevante nello scontro immane della guerra e una costruzione ormai inadeguata per far vivere e far progredire una società moderna. Al contrario, proprio perché quella lotta ha segnato un discrimine storico, ed ha posto i fondamenti nuovi dell’unità della nazione, e ha dato vita alle idee-guida della società e della democrazia italiana, noi sentiamo che un in momento difficile come quello attuale, in un passaggio critico per il nostro Paese e per l’Europa, è necessario, è giusto richiamare la Repubblica ai suoi principi. Non possiamo meravigliarci dei tentativi, rivolti, non solo in Italia, a ridurre e ad oscurare il valore e la portata della Resistenza, e le ragioni stesse, ideali e politiche, della lotta contro il fascismo e il nazismo. Non possiamo meravigliarci, perché anche la discussione e il contrasto sul passato è un elemento della battaglia politica, dello scontro aperto tra conservazione e progresso. Sia chiaro: noi riteniamo importante l’indagine e la riflessione storica per approfondire la conoscenza e il giudizio sul fascismo e sull’antifascismo, per superare le superficialità, gli schematismi sommari.

E’ sufficiente ricordare quelle “ lezioni “ sul fascismo di Togliatti, alla metà degli anni trenta, sul carattere di massa che il regime reazionario era riuscito a realizzare, per capire che gli antifascisti autentici, delle più diverse tendenze culturali e politiche, si sono sempre preoccupati di comprendere le radici storiche, i motivi dell’affermazione del fascismo, la complessità del fenomeno, anche in temi autocritici: ma per combatterlo con intelligenza e il rigore necessario, non certo per giustificarlo o per venire a patti. Ed anche oggi noi dobbiamo dire che non c’è operazione culturale, sia pure sottile, non c’è propaganda, sia pure accattivante, che possa cancellare il dato di fondo, irrevocabile: che il fascismo, dopo avere stravolto e compromesso lo sviluppo nazionale, e colpito a morte le libertà e la democrazia politica, e chiuso la società italiana in una stagnazione economica e culturale, condusse l’Italia alla catastrofe della guerra e della sconfitta.

Noi non possiamo dimenticare. Non possiamo consentire che si dimentichi o si offuschi la verità. E la verità è che il fascismo è stato un’insorgenza reazionaria, violenta, distruttiva, contro le conquiste, le aspirazioni, le forze del movimento socialista e popolare. Le complicità, le tolleranze, i trasformismi che ne consentirono il successo non salvarono nessuno: dopo i colpi feroci ai comunisti, ai socialisti, furono travolti i cattolici democratici, i liberali, e l’intero sistema della democrazia italiana, la libertà della cultura e dell’arte. Non occorre ripercorrere la storia delle corresponsabilità, degli appoggi aperti, delle capitolazioni, dalla monarchia alla Chiesa, a grandi intellettuali, e degli inganni, delle illusioni per cui quel regime reazionario, oppressivo, potè reggere, potè divenire padrone della sorte di un popolo intero, e andare all’azzardo delle conquiste coloniali, delle aggressioni avventurose; ed avere la meglio, tanto da sembrare che il rifiuto, la condanna, la resistenza fossero destinati alla sconfitta, a quel terribile silenzio in cui in Italia, dopo quelli di Matteotti, di Amendola, di Gobetti, si consumò, nel ‘37, il sacrificio di Antonio Gramsci.

Non fu così. E non perché Mussolini commise l’errore, tragico, di entrare in guerra. La verità è che quel regime autoritario, classista, di sclerosi economica, di ingiustizia sociale era minato da contraddizioni profonde e la guerra rappresentava l’approdo fatale della politica e dell’opera di una classe dirigente, di uno Stato, di una destra visceralmente nemica dei lavoratori, dei “ rossi “; tanto sciovinista quanto priva di coscienza e di storia nazionale; tanto proterva, in campo internazionale, verso i più deboli quanto servile verso i potenti, fino ad accettare dal nazismo la più perversa delle abbiezioni: la persecuzione razziale! Così, in un intreccio impressionante di retorica imperiale, di demagogia bellicista, di impreparazione e di viltà, l’Italia fu gettata in un conflitto enorme, nelle aggressioni disonorevoli alla Francia, alla Jugoslavia, alla Grecia, all’Unione Sovietica. Nel 1924 Mussolini aveva detto che avrebbe tolto all’Italia la libertà, ma le avrebbe dato la grandezza. E invece la distruzione della libertà, a cominciare da quella dei lavoratori, si risolse nella lacerazione della nazione, nel crollo dello Stato, nella catastrofe rovinosa dell’intero Paese. Questa è la lezione della storia. In questi anni si è cercato di usare, più o meno copertamente, l’eredità e gli eredi del fascismo come un contrappeso, un condizionamento, un’arma rivolta contro il movimento operaio e la sinistra; ed è sempre stato un calcolo miope, che ha dato frutti amari, talvolta drammatici, per le insidie, i freni, gli attentati che ciò ha comportato nel processo democratico. Non si tratta, oggi, di mantenere aperte le ferite, di intimare ostracismi, ma la lezione della storia non può essere offuscata; non sono tollerabili atteggiamenti e atti che suonino offesa alle sofferenze e ai sentimenti di intere popolazioni – come è accaduto con Marzabotto – o che possano far pensare che, in una qualche forma, il fascismo può rientrare nel gioco politico, in Italia e in Europa.

No. I costi sono stati troppo alti, e ci ammoniscono.

Chi ricorda, chi sa riflettere sulla realtà dell’Italia del settembre ‘43: un paese sconfitto, diviso, divenuto campo di battaglia; la dispersione e la dissoluzione dell’esercito; il crollo delle istituzioni e delle strutture statali; la contrapposizione tra una monarchia screditata e un neofascismo subalterno, grottesco e feroce; la crisi sconvolgente delle coscienze di fronte ad una scelta drammatica; ebbene chi riflette su questo abisso può comprendere e misurare quale impresa ardua e dura sia stato il moto del riscatto e della rinascita; la saldatura in un obiettivo comune della guerra partigiana e della guerra del nuovo esercito, del Corpo italiano di liberazione, della lotta aperta degli ufficiali e dei soldati italiani nella resistenza di altre nazioni, dalla Jugoslavia alla Grecia, alla Francia, all’Albania, alla lotta oscura dei prigionieri nei campi di concentramento tedeschi. Come è stata possibile questa straordinaria accensione di orgoglio e di onore, questa volontà e capacità di lotta e di sacrificio? E’ vero: la Resistenza italiana è stata parte di un grande movimento che, dalla Norvegia a Creta, dal Vercors francese alla Jugoslavia, alle steppe ucraine, minò le retrovie naziste, impegnò corpi d’armata, sollevò popolazioni, aprì le vie alla vittoria, e fu il primo segno della nascita di una nuova Europa.

Ma l’Italia era stato uno dei paesi aggressori e degli alleati dell’imperialismo tedesco; ma la monarchia non poteva essere un sicuro referente statale; e non poteva bastare l’appello dello potenze alleate, non poteva essere sufficiente neppure l’impegno, per quanto eroico, di una avanguardia ad affrontare un duro scontro civile, a muovere grandi masse di popolo nel sostegno, nella solidarietà, nella partecipazione, e nel sacrificio, come fu da Boves al Monte Grappa, alle Alpi Apuane, dalle centinaia di villaggi bruciati e distrutti, ai diecimila civili massacrati dai nazifascisti, perché colpevoli di aiutare i partigiani, dalle vittime delle rappresaglie spietate – delle tante Ardeatine d’Italia – ai deportati politici e razziali, gettati nell’inesorabile abisso della ferocia nazista.

Se questo accadde, se la Resistenza riuscì a divenire non solo una forte e unitaria guerriglia di formazioni partigiane diverse ma una guerra nazionale; e riuscì ad animare, a far crescere un grande movimento e rendere protagoniste le classi popolari, dagli operai ai contadini, è perché le tante ragioni e spinte – della lotta si saldarono. E’ perché le motivazioni e le spinte – da quelle più consapevoli, anche se diverse, delle forze e dei partiti antifascisti a quelle più immediate e spontanee della rivolta contro le umiliazioni, le prepotenze, la politica rovinosa del fascismo e della condotta della guerra, che già avevano acceso la lotta e il sacrificio eroico degli ufficiali e dei soldati italiani a Cefalonia, a Lero e in tanti altri episodi di ripresa dello spirito patriottico e dei sentimenti di dignità civile – si composero, attraverso un processo travagliato, un confronto anche aspro di idee, una battaglia difficile contro le tentazioni della rinuncia, dell’inerzia e dell’attendismo, in una intesa e in un disegno politico di grande respiro. Ed è sotto questo profilo che a me preme oggi rivendicare la parte, e il merito dei comunisti italiani e del nostro partito. Nessuno – lo sappiamo – osa mettere in discussione il contributo enorme che abbiamo dato alla resistenza contro il fascismo e alla lotta di liberazione. Siamo stati nel ventennio gli oppositori più intransigenti e combattivi. Siamo stati in campo nella difesa della libertà della Spagna; siamo stati organizzatori, nel marzo del ‘43, degli scioperi degli operai che a Milano, a Torino, a Genova scossero dalle fondamenta il regime fascista; siamo stati tra i primi, con Longo, a chiamare, a Roma, l’ otto settembre, al combattimento soldati e cittadini, e ad organizzare i partigiani; siamo stati tra i primi, con Concetto Marchesi, a indicare ai giovani, agli studenti l’esigenza di portare tra le rovine “ la luce di una fede, l’impeto dell’azione e la volontà di ricomporre la giovinezza e la patria “. Non da soli, che non abbiamo mai preteso né voluto essere soli nella lotta; ma nessuno può mettere in dubbio o diminuire la parte che è stata nostra nell’impegno organizzativo, nella direzione del movimento partigiano, nel prezzo del coraggio, del sacrificio, del sangue.

Ed io voglio ricordare Longo, la sua intelligenza politica e militare, la sua lungimiranza e tenacia, con Ferruccio Parri, nell’unificazione delle forze partigiane; voglio ricordare Secchia, e il suo impegno appassionato, audace, di organizzatore delle Brigate Garibaldi; voglio ricordare Amendola e la sua opera di tessitura dei rapporti unitari nel Comitato di Liberazione Nazionale; e con loro ricordo tutti, i comandanti e i combattenti, i caduti e i vivi, e li ricordo nella luce di un giorno di aprile, quando il generale Meinhold firmò la resa e si consegnò a Genova nelle mani di Remo Scappini, operaio comunista. Ma, più a fondo e soprattutto rivendichiamo il contributo politico del Pci.

Rivendichiamo quella visione, quella linea dell’unità nazionale, antifascista, democratica, che fu determinante per l’avvicinamento, il confronto aperto e l’alleanza delle grandi componenti storiche, ideali e politiche, della democrazia italiana – quelle del movimento operaio, i socialisti, i comunisti, gli azionisti; quelle del cattolicesimo democratico e popolare; quelle della democrazia laica e liberale. Da qui venne una sollecitazione essenziale ai Comitati di Liberazione Nazionale, un nuovo, originale organismo politico di potere democratico, che diede legittimità e garantì la direzione unitaria della lotta armata. Noi rivendichiamo quella strategia, e l’opera eccezionale, decisiva di Palmiro Togliatti: il colpo d’ala della svolta del marzo ‘44 che, accantonando la pregiudiziale antimonarchica, consentì di unire tutte le forze, al Sud e al Nord, nel dovere supremo della guerra per liberare l’Italia. Rivendichiamo l’affermazione, limpida e netta, della funzione nazionale della classe operaia. Noi, egli dirà con orgoglio tanti anni dopo, abbiamo insegnato il patriottismo agli operai! Rivendichiamo l’impegno per la costruzione di una società nuova, fondata su una democrazia aperta, progressiva, sul pluralismo delle forze politiche e sociali, sulla partecipazione delle classi popolari. Qui, e il titolo più alto e imperituro del nostro partito. Aver portato il movimento operaio alla testa di una guerra nazionale; aver perseguito con tenacia e correttezza l’alleanza più ampia; aver lavorato, nel momento della lotta e in quello della ricostruzione, secondo una visione unitaria dello sviluppo storico della nostra nazione e nello stesso tempo con la coscienza acuta delle differenze e dei contrasti, sociali e politici, ch’erano pur presenti nello schieramento antifascista, con la coscienza degli stessi limiti del moto partigiano e popolare, e dei condizionamenti internazionali. Di questa democrazia noi siamo stati gli artefici primi. Lo siamo stati nella lotta di liberazione. Noi siamo stati artefici primi nella costruzione della Repubblica e di una Costituzione in cui si sono affermati, non solo i principi e i valori della democrazia politica, ma un programma di democrazia sostanziale, economica e sociale. Lo siamo stati, assieme ai cattolici, ai socialisti, con tutta l’opera rivolta a fare delle classi popolari il fondamento, l’anima, il presidio della nazione e dello Stato, compiendo finalmente quella saldatura tra popolo e nazione che non era riuscito a realizzare il Risorgimento; lo siamo stati con l’impulso dato – assieme ai cattolici, ai socialisti – alla costituzione dei moderni partiti politici e con l’impulso dato alla costruzione di un nuovo tessuto democratico – dai sindacati alle organizzazioni dei giovani, delle donne. Lo siamo stati nei momenti più difficili ed aspri, facendo della Costituzione lo scudo e l’arma della nostra azione, rivendicandone il rispetto e l’attuazione, quando per altri era divenuta una “trappola“, conducendo sul terreno democratico tutte le battaglie per il lavoro e la giustizia, per la pace e la libertà, per l’affermazione dei diritti dei lavoratori e per il rinnovamento della società italiana, anche quando la lotta era tornata a costare persecuzioni, sacrifici e sangue. Noi siamo ben consapevoli della strada che abbiamo compiuto: dello sforzo e del coraggio che sono stati necessari al nostro partito – con Togliatti, Longo e poi con Berlinguer – per fare fronte ai tornanti della storia, per intendere il moto delle cose, per rinnovare la nostra politica. Non saremmo divenuti la grande forza della sinistra, riformatrice e progressista, che siamo oggi in Italia e in Europa, se non avessimo avuto l’intelligenza e la capacità di promuovere il cambiamento, di fare i conti con noi stessi, di operare rotture, di ricercare vie e soluzioni nuove nella lotta democratica e socialista. Ma questa crescita e affermazione del Pci sarebbero state impensabili, se non fossero stati autentici e saldi i dati costitutivi, l’ispirazione politica del nostro partito nella Resistenza, nella lotta di liberazione, nella costruzione dello Stato repubblicano e democratico. A coloro che si impancano, e spesso con titoli dubbi, a maestri e arbitri di democrazia, diciamo che meglio farebbero a riflettere al danno e al pericolo di ogni riproposizione di quella “democrazia zoppa“, che le forze antifasciste avevano, nel fuoco della Resistenza, solennemente escluso dalle prospettive del Paese. Non è stato così, e non occorre ora tornare sulle cause e le responsabilità della rottura dell’unità nazionale e democratica. Ciò che è indubitabile è che il blocco della democrazia italiana, le pregiudiziali e le preclusioni anticomuniste, la negazione della possibilità di reali alternative politiche e di governo, il sistema, per di più di trent’anni, imperniato sulla centralità della dc e sulla cooptazione, in termini di subalternità, degli alleati hanno pesato e pesano oggi, in modo più acuto e negativo, nella vita del nostro paese.

E’ vero: quella cristallizzazione del potere governativo non ha impedito la crescita e la trasformazione della nostra società, dell’economia, del costume civile, della cultura, ma ha reso più faticoso, travagliato e contraddittorio questo processo, e ne ha duramente elevato i costi sociali e umani. E guai oggi a non rendersi conto che quella strozzatura, quel blocco della democrazia è stato all’origine di un processo di deformazioni, di guasti, di fenomeni degenerativi, nel sistema politico e nella vita della nostra nazione.

Di qui è insorta la questione morale, nella sua vera connotazione politica e istituzionale. Se abbiamo tanto insistito, se insistiamo non è per segnare una nostra distinzione e superiorità. Noi non ci siamo chiamati fuori. Abbiamo avvertito che dal Paese, dai giovani in particolare, dai nostri e da quelli delle organizzazioni cattoliche, veniva una richiesta forte di pulizia, di correttezza, di rifondazione della politica su valori di moralità, di impegno disinteressato, di servizio verso la collettività. E a questa esigenza di rinnovamento abbiamo cercato di rispondere con serietà.

Ora di fronte alla realtà ancora allarmante degli affarismi, del malcostume, delle corruttele, e di fronte alle insidie e alle minacce che l’insorgenza eversiva del terrorismo, delle stragi nere, della criminalità mafiosa continua a far gravare sulla convivenza civile, sulla libertà dei cittadini, sulla sicurezza e lo sviluppo della democrazia; di fronte alla dimensione e all’acutezza dei problemi economici e sociali e di quelli internazionali, come è possibile – chiediamo, ad uomini che hanno le più alte responsabilità di governo e di partito – subordinare a calcoli politici ed elettorali gli interessi generali della nazione? Attenti: lo diciamo con un monito fermo e responsabile; lo diciamo rinnovando l’impegno nostro, che esigiamo sia anche l’impegno di tutte le forze democratiche, alla fedeltà e al rispetto rigoroso del patto unitario, dei principi e dei valori della Costituzione repubblicana. In questo nostro richiamo al patrimonio della Resistenza, alle idee costituenti della Repubblica e del regime democratico, resta operante per noi una visione unitaria dello sviluppo della nazione, quella esigenza della ricerca di convergenze, di intese, di impegni comuni – al di là degli schieramenti di maggioranza e di opposizione – quando in gioco sono beni supremi della pace e dell’indipendenza, della libertà e della democrazia.

Noi questo impegno l’abbiamo assolto in pieno, negli anni di piombo, senza esitazioni, senza calcoli di convenienza, senza cedimenti, distrazioni, ammiccamenti nella lotta contro il terrorismo, quali che fossero i suoi colori, le mascherature ideologiche, gli obiettivi dichiarati. Ci siamo battuti, su una linea di intransigenza e di fermezza, per senso di dovere verso la repubblica, per senso di responsabilità nei confronti dei lavoratori e del popolo italiano, coerenti a quell’ispirazione politica, che dalla Resistenza ci ha spinti ad escludere, a battere il sovversivismo avventurista, gli estremismi demagogici e velleitari, le chiusure settarie, e ci ha fatto fondare le prospettive di liberazione e di ascesa dei lavoratori, di progresso democratico, di avanzamento verso il socialismo, sulla lotta politica alla luce del sole, sull’azione di grandi movimenti di massa, sulla costruzione di un ampio tessuto di alleanze sociali e politiche. Questo impegno lo ribadiamo. Le critiche che noi abbiamo rivolto e rivolgiamo al governo hanno un solo scopo: quello di sollecitare un’opera più coerente, decisa, e nell’impegno unitario di tutti, per venire a capo delle troppe stragi impunite, dei troppi assassinii politici della mafia; per prevenire il terrorismo, per liquidare centrali e mandanti; per liberare il Paese dai cancri vergognosi delle P2, dei trafficanti di droga e di armi. Vogliamo che il confronto e la lotta politica si svolgano in modo aperto, civile, nel rispetto pieno del metodo e delle regole democratiche. Noi non abbiamo rivendicato un diritto di veto per l’opposizione, non abbiamo proposto una qualche forma di democrazia consociativa. Quando affermiamo che bisogna ricondurre la Repubblica ai suoi principi, vogliamo dire altro. Vogliamo dire che non c’è da attendere il duemila per considerare la democrazia italiana nella pienezza costituzionale, per riconoscere l’eguaglianza, la parità dei diritti delle forze democratiche; che non vi possono essere dubbi o riserve sul fatto che il Partito comunista ha tutti i titoli, politici e morali, per governare l’Italia. Vogliamo dire che non si può continuare a governare per stato di necessità; che deve esserci coerenza tra programmi e schieramenti. Vogliamo dire che una politica riformatrice, progressista, esige un’alleanza di forze riformatrici e progressiste, come noi proponiamo per il governo delle regioni, dei comuni, delle provincie con le giunte democratiche di sinistra, come noi proponiamo per l’intero paese con la politica di alternativa democratica. Sia chiaro: noi sollecitiamo e ci battiamo per una svolta politica, ma siamo ben persuasi che occorre una riforma dello Stato, un rinnovamento delle istituzioni. Noi vogliamo che la democrazia italiana viva e si irrobustisca. Vogliamo un Parlamento moderno, forte, efficiente – una sola Camera, la metà degli attuali parlamentari, che si occupi delle grandi questioni di indirizzo e di controllo, delle grandi leggi. Vogliamo un governo che sia autorevole perché fondato non su logiche pregiudiziali di schieramento, su ripartizioni contrattate dei ministeri, come si trattasse di feudi, ma su intese programmatiche serie, su scelte di uomini capaci e corretti. Vogliamo un sistema delle autonomie – dalle Regioni ai Comuni – finalmente nella pienezza dei compiti e dei poteri costituzionali, con le risorse finanziarie necessarie, liberati dalle prevaricazioni dei partiti, dalle incursioni di mafie e camorre, e con regole che garantiscano la correttezza, la trasparenza, il controllo pubblico delle amministrazioni. Vogliamo un sindacato autonomo, unito, democratico, forte del consenso e della forza dei lavoratori. Vogliamo una magistratura, che non sia accusata di protagonismo ogni volta che chiama in causa gruppi e uomini politici, ma che abbia i mezzi, il sostegno, l’aiuto necessari ad amministrare, con tempestività, la giustizia, ad andare a fondo nella lotta contro la criminalità di ogni tipo. Vogliamo dei Servizi che, senza interferenze straniere, senza residui di deviazioni siano davvero orientati e impegnati nella difesa della sicurezza della nazione e della democrazia italiana. Ecco: i tentativi di edulcorare l’immagine del fascismo, di appiattire il significato e la portata della Resistenza, di oscurare, nel travaglio e nello scontro che in essa si svolse tra concezioni, culture, prospettive diverse, tra forze progressiste e moderate, il momento e l’approdo unitario, e il nostro contributo, sono manifestazioni di una campagna, culturale e politica, rivolta a colpire la speranza e la fiducia nel cambiamento.

Di fronte a queste tendenze restauratrici, a questi sintomi di crisi di civiltà, ai fenomeni di imbarbarimento della vita civile e politica, vale il richiamo alla lezione della Resistenza. L’opera di rigenerazione morale, di rinnovamento democratico, di nuovo sviluppo economico di cui l’Italia ha bisogno; le sfide dei tempi, della scienza e della tecnica; i nuovi bisogni e i nuovi diritti che la collettività e i singoli rivendicano, possono trovare ancora un punto di riferimento essenziale in quel programma e in quella ideologia della trasformazione democratica della società che la Resistenza ci ha consegnato. Perché non dovremo avere fiducia nella ragione dell’uomo, nella lotta consapevole delle masse popolari, nella possibilità di cambiare e di progredire? Perché non dovremo essere persuasi che è possibile uno sviluppo, che non comporti i prezzi pesanti della disoccupazione, della riduzione del salario, di nuove emarginazioni e povertà, e sia invece orientato e programmato su principi e valori di giustizia, di solidarietà e di eguaglianza? Non c’è nulla di fatale, e non c’è nulla di moderno, nelle filosofie e nelle politiche che si affidano ai puri meccanismi del mercato, alla logica spietata del profitto, alle regole selvagge della forza, e che scontano nel mondo della produzione, nella società, nei rapporti tra i popoli il successo dei più potenti e la sconfitta dei più deboli. Non è un richiamo retorico, non è un appello a idee arcaiche, e inattendibili, ricordare a tutti, a noi, ai socialisti, ai democristiani, ai repubblicani gli impegni di giustizia, di libertà, di progresso sociale e umano, di programmazione dello sviluppo, di superamento del divario tra Nord e Sud, che assieme abbiamo sancito nella Costituzione.

Ed è bene ricordarlo ai giovani perché sappiano che qui è il fondamento del loro diritto e del loro dovere, a battersi per la pace, per una società più giusta ed umana, per il sollevamento dei popoli oppressi. Di questi valori l’Italia ha bisogno. E ne ha bisogno l’Europa; se vuole evitare la sorte della subalternità e del declino, se vuole affermare le ragioni dell’unità e dell’autonomia, e di una nuova funzione nel mondo, in una politica di pace, di trasformazione democratica, di eguaglianza tra le nazioni della Comunità, di giustizia e di progresso sociale. L’Europa, come il mondo, ha nella pace la necessità suprema.

Sul teatro europeo finì una guerra inumana e atroce, ma fu il lampo atomico di agosto, a Hiroschima e Nagasaki, che concluse lo scontro su scala mondiale. Quella bomba fu più di una nuova arma: essa segnò l’inizio di una dimensione sconosciuta nella vita dell’umanità; segnò, per la prima volta nella storia, la possibilità, e il rischio, di distruggere l’esistenza stessa dell’uomo su questa terra. E’ vero: il mondo non si è fermato. L’Europa stremata si è ripresa. Il colonialismo ha subito un colpo mortale. Grandi imperi sono crollati; gigantesche rivoluzioni nazionali, sociali, tecnologiche hanno mutato e stanno mutando l’esistenza del genere umano. Mai vi fu epoca tanto carica di mutamenti in ogni sfera della vita. Ma la gara atomica sovrasta su tutto, si accelera, sta per superare i confini della terra, per entrare negli spazi stellari. L’allarme è motivato. L’impegno per la pace è più che mai urgente. Prima di tutto per questo ci siamo qui riuniti, per richiamare le speranze e gli impegni di pace della Resistenza italiana ed europea. Per chiedere alto e forte alle grandi potenze: negoziate con onestà; rinunciate alla nuova corsa terrificante verso la militarizzazione dello spazio; associate l’Europa, e l’Europa chieda di essere partecipe alla trattativa di Ginevra.

Riconoscete il diritto dei popoli alla libertà, all’indipendenza in ogni parte del mondo – dal Nicaragua all’Afghanistan. Avviate il disarmo nucleare. Aprite al mondo, nello spirito della grande coalizione antifascista vittoriosa nel 1945, la prospettiva della coesistenza, della distensione, del superamento dei blocchi militari, della cooperazione economica internazionale.

 ALESSANDRO NATTA
( Discorso pronunciato a Milano per il 40° della Liberazione)


L'INFINITO
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e la morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.
-Giacomo Leopardi-

















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