PLATEALE

mercoledì, 12 settembre 2012

PLATEALE

 

Dicono che l’austerità la si legge sui muri delle strade, sui volti, privi di luminarie sfarzose delle vetrine. Fino a qualche anno fa, nell’imminenza delle feste di fine anno, non c’era bottega anche della più sperduta periferia che non rilucesse di lampadine variopinte, di confezioni sfarzose, plateali fino al cattivo gusto più sfacciato. In piazza, nelle città maggiori, giganteggiavano abeti di dieci e passa metri, addobbati di palloncini e stelle d’argento come bottegaie arricchite a una prima della Scala. Non sono vigilie da rimpiangere, quelle; anche il vero benessere ha ben poco da spartire con quelle chiassose e fatue manifestazioni di consumismo. Ma è un fatto che, fino a qualche anno fa, il Natale rappresentava un approdo sereno: non sempre i bilanci di fine anno (quelli generali, della società, e quelli particolari delle famiglie) erano occasioni di soddisfazione e di compiacimento, ma c’era quanto meno la sensazione che ci si poteva mettere una pezza l’anno dopo. Ora no. Ora sembra di navigare con il timone in avaria in un mare senza ieri e senza domani. Si ondeggia, ma senza andare né avanti né indietro. Non c’è un bel nulla da festeggiare, se non la cosiddetta tradizione. E infatti, non si festeggia un bel niente. Si spende, questo sì, convinti che tanto, a questo punto, tenerli in tasca o in banca, i soldi, non serve a niente. Le vetrine dei negozi magari non sono addobbate a festa come gli anni passati, ma il rito natalizio delle spese folli persiste comunque. In tasca si ha sempre meno, ma non importa; quel po’ che si ha lo si brucia, quasi con euforica disperazione. Ancora una volta l’austerità dimostra di essere, alla prova dei fatti, nient’altro che un paravento dietro il quale si cela una disgregazione sociale sempre più avanzata: da un lato la caparbia determinazione di restare in sella, per chi ancora non si sente ”groggy”; dall’altro un disagio che somiglia sempre più alla miseria per chi è stato disarcionato dal fatuo benessere degli anni passati e fa i salti mortali per mettere assieme il pranzo con la cena. L’austerità negli intendimenti di chi la predica come unico mezzo per fare uscire il Paese dalla crisi, è un momento di esemplare compattezza sociale. Nella realtà stiamo invece assistendo a un inquietante processo di disgregazione, con un rabbioso fiorire di spinte corporative e individualistiche. E non c’è poi neppure da stupirsene, dopo che all’austerità si è fatto conoscere solo il volto corrucciato delle varie stangate e delle una-spessum tappabuchi, senza mai curarsi delle contropartite, sul piano morale, soprattutto, indispensabili per rendere accettabili i sacrifici richiesti. Il dramma vero è rappresentato dalla permanente assenza di una prospettiva, di un obiettivo per cui sacrificarsi. E’ la convinzione che i sacrifici, posto che siano ancora possibili, non producano un bel niente. Lo scetticismo dei tanti condiziona la capacità di ripresa economica e fin’anche morale di una società in crisi più ancora che l’avidità e la spregiudicatezza dei pochi. Ma come mettere al bando lo scetticismo, la convinzione che tutto ormai sia vano, se non si possono offrire prove che i sacrifici servono a qualcosa, che esiste davvero, e non solo nel libro dei sogni, una prospettiva di rinascita e di risanamento della società in cui viviamo? L’augurio che vogliamo fare ai nostri lettori, nell’imminenza delle ferie di fine anno, è che il 1978 sappia portarci quelle certezze necessarie per sospingerci oltre le sabbie mobili della situazione attuale. Certezze sul piano politico, ma soprattutto sul piano morale. Perché austero, e quandi capace di lottare per un domani migliore, può essere soltanto un Paese fiducioso in se stesso e in chi lo governa. (Meditazione su Non fiori ma opere di bene in Giorni 52/1977 di Paolo Moresco).

 

ER   GRILLO   ZOPPO

 

Ormai me reggo su ‘na cianca sola.

 

Diceva un Grillo. Quella che me manca

 

m’arimase attaccata a la cappiola.

 

Quanno m’accorsi d’esse priggioniero

 

col laccio ar piede, in mano a un ragazzino,

 

nun c’ebbi che un pensiero:

 

de rivolà in giardino.

 

Er dolore fu granne… ma la stilla

 

de sangue che sortì da la ferita

 

brillò ner sole come una favilla.

 

E forse un giorno Iddio benedirà

 

ogni goccia di sangue ch’è servita

 

pe’ scrive la parola libbertà!

 

-Trilussa-

 

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