L’INTERNAZIONALE
martedì, 21 settembre 2010
L’INTERNAZIONALE
La sera, dopo il silenzio, cantavamo a gran voce L’Internazionale. Quel coro per il quale ci esercitavamo, testimoniava che qualcosa era cambiato, avvertiva i nostri carcerieri che eravamo già liberi anche se c’era qualche ritardo nelle formalità; era un saluto per quelli di fuori.
Ma non si trattava di formalità; la questione era che Badoglio non voleva mettere in libertà i comunisti. Uscimmo soltanto il 21 agosto e non tutti; alcuni, trattenuti con i più assurdi pretesti, fecero in tempo a essere consegnati ai tedeschi da un direttore che naturalmente ha poi fatto carriera. Finirono nel campo di Mathausen e pochi ne tornarono.
Uscimmo come peggio non avremmo potuto immaginare: dal penitenziario alle carceri di Sulmona con le manette ai polsi e le catene, come se dovessero portarci in un’altra galera.
Trascorremmo poi due giorni in cella con la minaccia di una traduzione ordinaria fino a casa, vale a dire per me un viaggio di venti giorni almeno attraverso tutte le carceri d’Italia. Sul mio foglio c’era scritto che dovevano consegnarmi al distretto militare di Torino! Quando vennero i carabinieri rifiutai, con rabbia, di uscire: quelli se ne andarono!
Continuammo a batterci e a protestare mentre i compagni a Roma premevano, finché ci buttarono in mezzo alla strada, mandando i poliziotti a minacciarci perché invece di ringraziare ravveduti, permettevamo a qualcuno di venirci intorno a chiedere di dove uscissimo e, saputolo, persino a offrirci una pagnotta.
E’ rimasta quasi vuota l’abbadia, gridavamo ai sulmonesi, fateci mettere i vostri fascisti, che non stiano sole le cimici. E al commissario: Dottore, sono cambiati i tempi, non cercatevi quai più grossi.
Ci portarono alla stazione e ce ne andammo ognuno in cerca del proprio paese e molti sapendo che tornare a Milano o a Torino non significava la certezza di trovare una casa.
Il viaggio fu la prima lezione per imparare a conoscere l’Italia nella quale eravamo tornati: un’Italia che volevamo cambiare subito. Per sapere come erano andate le cose, negli anni della nostra lontananza non c’era tempo. Treni pieni di gente ancora disorientata, i ferrovieri amici davvero, i profughi spauriti e i rottami del nostro esercito che in Sicilia era andato un frantumi.
Ricordo di aver parlato a lungo con un soldato che tornava a casa, come gli altri, senza licenza, ma, a differenza degli altri, con il suo fucile. Chi può sapere cosa succederà? mi chiedeva. E io a dirgli che non si poteva indovinare tutto, ma che mettesse il fucile al sicuro. Trovai un capitano che raccontava dei partigiani iugoslavi e un architetto che si rivelò per un simpatizzante: fra tanta gente nessuno che parlasse bene del fascismo. Ciò che mi colpì di più fu un tenente, quasi ragazzo, coi calzoni corti di tela, tracciato e intento alle parole crociate della Settimana enigmistica, ostinato a non alzare mai la testa per interrogare o per interrompere noi che raccontavamo del carcere, che parlavamo della guerra e del fascismo, come se volesse cancellarci, magari proprio perché rappresentavamo qualche cosa di assolutamente nuovo per lui e fuori dal suo mondo. Forse era uno di quei fascisti che andarono poi con la repubblica di Salò; forse era solo stanco, forse non credeva più in quel momento a nessuna cosa al mondo e tornò ad aver fiducia facendo il partigiano. -Gian Carlo Pajetta- (tratto da Il ragazzo rosso, Mondadori editore, 1983)
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