GUITTI
VENERDÌ, 28 MAGGIO 2010
GUITTI
E’ atroce. A due passi da Roma. Capanne di paglia, come
cumuli di strame. In capanne vivono, senza pavimento, sembrano anche loro di
fango, guardano attoniti, bimbi e vecchi, al confronto quelli dell’ambulatorio
sono dei signori, le capanne stanno fuori d’ogni strada, ci si va per un
sentiero, a piedi, è una specie di villaggio, tre quattrocento persone, e
dicono che ve ne son tanti altri così sparsi nella campagna, tutti intorno a
Roma e più giù sino alle Paludi Pontine, aggruppamenti di veri tukul,
abbandonati, senza medico, senza scuole, e mi guardavano come se veramente
fossi capitata in Africa, scendendo dalla Sabina, dalla Ciociaria e dagli
Abrizzi, tornano al loro paese soltanto da luglio a settembre, quando la malaria
infierisce più acuta. Il terreno appartiene a un principe. Li chiamano guitti.
Dormono accatastati nel fumo, nel puzzo. Oggi c’era il sole. Ma quando piove,
come posso vivere, lì, come?… Cena mi guardava tremando. Piangevo. Da quel
pianto nacquero le Scuole dell’Agro Romano. E il lungo, lungo apostolato, quasi
frenetico, mio e di Cena. Le lunghe esplorazioni per la campagna, giornate
intiere a piedi, inverno, estate, polvere rossa tufacea, fango nero, e qualche
alberello di rose talora sperduto nel deserto, e rovi a macchia, poi ancora
stoppie all’infinito e sempre all’orizzonte l’apparizione di qualche divinità,
la ghirlanda dei Colli Albani, o la linea incandescente del mare, o il Soratte
o l’Artemisio, o la rocca d’Andrea, oppure la stessa Roma, laggiù, barbaglio
lontano nel mezzo del gran piano ondulato e vaporante. Caput mundi, mormorava
amaramente Cena. Ad un tratto, dietro un rialzo di terreno, un gruppo di
capanne si profilava: dieci, cento, cinquanta. Bimbi e donne si sporgevano
dalle basse aperture, attoniti, con gli occhi cisposi, ci tastavano le vesti.
Nessuno giungeva mai sin là. Nessuno, salvo l’arruolatore il caporale e
l’agente delle tasse. Neanche il prete, neanche per i morti, che venivano
portati a spalla al cimitero più prossimo, a dieci , dodici chilometri. Né
medico, né levatrice. E, grandi e piccini, quasi tutti malarici, e, tutti,
analfabeti. In ogni villaggio che scoprivamo si decideva di idtituire una
scuola, festiva o serale, a seconda della distanza. L’esiguo gruppo di socie della
sezione romana della Unione femminile aveva nominato noi quattro Comitato
Esecutivo, ci aveva dato pieni poteri per la raccolta dei fondi, per la
propaganda ed estensione dell’opera. Cinque anni della mia vita sono
indissolubili dal ricordo di quei guitti, di quei volti di ragazzi e di vecchi
intenti a compilare seguendo l’insegnante alla lavagna con tremore religioso…
-Sibilla Aleramo- ( tratto da Dal mio diario)
TORMENTO
L’anima mia piena di cose oscure
brancola vagabonda: come un cieco
in sè guarda, si ascolta e parla seco
stesse parole a penetrarsi dure.
Sfioran là a volo le capigliature
buie dei sogni là dov’io la reco
e fra ‘l notturno vento ella ode l’eco
di sordi passi su le sepolture.
L’anima mia profondi esseri cova.
Su lei sovente chino e senza fiato
li sento nella notte abbrividire.
E senza fine attendo che si mova
e schiuda il seme in lei dell’avvenire
l’anima mia profondi esseri cova.
Su lei sovente chino e senza fiato
li sento nella notte abbrividire.
E senza fine attendo che si mova
e schiuda il seme in lei dell’avvenire.
-Giovanni Cena-
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