LA MORTE DEL CHEYN

 

SABATO, 24 APRILE 2010

LA MORTE DEL CHEYN

Proseguendo verso nord, gli indiani fecero un percorso sinuoso e frastagliato, impossibile a scoprire. Dodicimila uomini, quasi una divisione di soldati degli Stati Uniti, veterani di vecchi reggimenti che avevano combattuto contro gli indiani, cercavano di raggiungere e prendere i trecento in marcia. E di questi trecento soltanto un’ottantina o poco più erano uomini, e di questi soltanto la metà erano guerrieri nel pieno delle forze. Le armate in uniforme turchina percorrevano il Kansas. Le lunghe colonne azzurre: cavalleria, fanteria, vagoni carichi di artiglieri e di cannoni, attraversavano il paese avanti e indietro. Talvolta essi combattevano, e allora i feriti e i morti giacevano sulla prateria, sull’erba gialla. Talvolta gli indiani, intercettati, si sparpagliavano in gruppi di due o di tre. Una volta rubarono una mandria di duecentododici cavalli e lasciarono dietro di se alcuni piccoli e nervosi pony, sfiniti, mezzi morti dalla fatica. Prelevarono del bestiame dalle mandrie, lo mangiarono, fuggirono avanti. I cow boy dell’allevamento Eagle Bar D, dodici robusti uomini, di ritorno da un’escursione con il carro delle provviste, arrivando sulla cima di un monticello di terra, videro due indiani che scuoiavano un bufalo. I cow boy si lanciarono avanti, e i due indiani, alzati gli occhi e visti i bianchi, si diressero di corsa verso i propri pony. Uno dei due raggiunse la sella con un lungo e precipitoso balzo. L’altro cadde con un proiettile in una gamba. I dodici uomini si avvicinarono all’indiano ferito che si contorceva disperatamente e cercava di afferrare il fucile che gli era caduto. Mark Ready, il capo del gruppo, allontanò il fucile con un calcio. Axel Green colpì in faccia l’indiano caduto col suo stivale sporco di fango. L’altro indiano si allontanò di circa trecento metri prima di voltare il suo pony e fermarsi a guardare. La distanza che lo separava dal gruppo era molto grande perché un proiettile di revolver potesse raggiungerlo, e i cow boy possedevano soltanto due fucili. Kling e Sanderson, tutti e due ottimi tiratori, tentarono qualche colpo contro l’indiano, ma senza alcun successo. Green voleva andargli dietro ma Redy disse: No, ne abbiamo qui uno… Al diavolo l’altro! Sanderson fu d’accordo. Questo è un cane guerriero, sentenziò, indicando con la testa l’indiano che giaceva per terra con una gamba rotta e la faccia sanguinante. Forse tutto il gregge è qui vicino. L’indiano che era sfuggito se ne andò lentamente. L’altro stava sdraiato, si appoggiava su un gomito, era immobile e neppure guardava i cow boy. Recitava sottovoce una strana cantilena. E questo che cos’è? Questo è un canto di morte, disse Sanderson. Marcy, che aveva un nonno ucciso dagli indiani, e sentiva quindi su di sé l’incombente dovere di odiare gli indiani molto di più degli altri, contrasse la faccia in una smorfia crudele e animalesca. Che ne facciamo? Domandò Green. Quel brutto lurido bastardo rosso, disse Marcy con un tono che non riusciva ad essere cattivo. Lascialo stare, disse Ferguson. Ferguson era il cuoco. Non sono affari nostri. L’indiano continuava a tenere gli occhi fissi al suolo, sdraiato sul fianco e sorreggendosi sul gomito. Era giovane, sotto i trent’anni: aveva i lineamenti regolari, il corpo lungo e forte, e il torso e le spalle formavano una massa poderosa. Se il volto piagato o la gamba rotta lo facevano soffrire, egli non mostrava alcun segno di dolore. Giaceva perfettamente immobile, nei suoi vecchi abiti di pelle, macchiati di sangue e di sporcizia. Troveremo un albero, decise Ready … e gli daremo una morte cristiana. Per Dio, no! Senti, Ready, disse il cuoco, noi non abbiamo nessuna autorità per linciarlo. Può darsi che sia un Cane Guerriero, e può darsi di no. Non c’è nessuno, qui, che sappia niente di questi indiani. Ma noi non abbiamo l’autorità di linciarlo. All’inferno se non è… Ma guarda i mocassini! I mocassini dell’indiano, con la suola tutta consumata dall’uso, logorati e a brandelli, mostravano ancora i segni di un antico splendore, tutti ornati, con sapienza e cura infinita, di tante perline. I mocassini, dei Cani Guerrieri, affermò Sanderson. Ferguson guardò in faccia i suoi compagni a uno a uno: la maggior parte erano giovani, sotto ai venti anni, agili e abbronzati. Egli li aveva studiati e considerati accuratamente durante le lunghe sere di escursione. E Ferguson aveva visto ciascuno di quei ragazzi in atteggiamenti umani, ricchi di quel solitario altruismo che caratterizza gli uomini che vivono in modo semplice. Non lo linciate, disse Ferguson, Cristo, lasciatelo qui solo se volete farlo morire. Piantala, cocco bello, disse Marcy. Nessuno degli altri obiettò nulla. Stavano in cerchio, fissavano l’uomo caduto r cercavano di non guardare il cuoco. Ferguson andò presso il carro delle provviste, prese una gavetta piena d’acqua e la porse all’indiano. Bere… vuoi bere? Chiese Ferguson. L’indiano alzò gli occhi, fisò Ferguson per un momento, poi prese l’acqua e bevve. Disse qualche cosa nella sua lingua. Diavolo, legatelo e mettetelo sul suo cavallo, scoppiò Ready, trascinato dal fatto che ormai aveva preso la sua decisione, e che la sua prontezza nel prendere le decisioni e nel portarle a termine era considerata da tutti la sua caratteristica. Ferguson scosse la testa pieno di sconforto, si voltò e salì sul carro delle provviste. Gli altri legarono l’indiano sul suo cavallo e andarono avanti, testardi, per circa tre chilometri prima di incontrare un albero abbastanza grande per potervi impiccare un uomo. Era un grosso cespuglio, che sporgeva sul bordo di una radura. Legarono una cinghia a un ramo, alzarono in piedi l’indiano sistemandogli il nodo scorsoio attorno al collo, e legarono l’altra estremità della cinghia al pomello d’osso che stava sulla sella del suo pony. Chissà come, l’indiano riuscì a stare in piedi appoggiato soltanto sulla gamba sana. L’unica cosa per cui pareva lottare in quel momento era nel mantenere la sua dignità; la sua faccia era impassibile e senza traccia di paura, gli occhi erano chiusi. Vorrei, per Dio, che dicesse qualcosa, mormorò Sanderson. Non mi piace veder morire un uomo senza dire una parola. Poi Ready frustò il pony che partì di corsa e l’indiano rimase appeso nell’aria. Ferguson si piegò e fece partire i suoi cavalli dicendo: Dobbiamo trovare un posto per accamparci. Io devo preparare da mangiare.

 

-Howard Fast-

 

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Sfrena le redini e galoppa, cavaliere,

 

fino a raggiungere Uthayl; quattro giorni di viaggio

 

dista quel luogo, se fortuna ti arride.

 

A mio fratello che là, morto, giace,

 

di’ che dal campo il mio estremo saluto ti affido,

 

saluto che sprona a battaglia i cavalli.

 

Per te, che ormai vaghi disperso ai miei occhi,

 

sia latte il mio pianto, da benefici seni sgorgato,

 

effuvio che provo a arginare,

 

e come torrente in stagione di piena

 

mi toglie il respiro.

 

Allorché il mio saluto laggiù, cavaliere,

 

avrai consegnato, dividi il mio pianto;

 

forse morte ti ascolta, malgrado sigilli a chi tocca

 

la bocca per sempre.

 

-Qutayla-

 

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QUAEDAM IURA SCRIPTA, SED OMNIBUS SCRIPTIS CERTIORA SUNT.

 

-SENECA-

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