LA GRANDE CANZONE

sabato, 27 marzo 2010

LA GRANDE CANZONE

Quando gli americani arrivarono a Seravezza e saltarono fuori dalle jeeps, nella piazza che aveva intorno un cerchio di macerie ancora calde, i cavatori dissero che finalmente l’inferno era finito. Inferno erano stati i tedeschi che spogliavano le stalle, uccidevano i buoi, portavano via gli uomini dalle case, minavano le case e le facevano crollare senza il suono dei corni. Inferno la fame lunga nei boschi, e il freddo, e i bambini e le donne impauriti come spettri; le artiglierie, da una parte e dell’altra, che per otto mesi avevano tessuto nel cielo una invisibile rete di ragno. Gli americani, nella piazza piena di macerie, piantarono le tende: un apparecchio radio si mise a suonare il jazz. Poi chiesero ai paisà se conoscevano signorine. Qui tutto distrutto, dissero i cavatori indicando i paesi intorno che erano cumuli grigi di polvere. You know segnorina?, chiesero ancora. I cavatori stavano seduti intorno come a uno spettacolo, avevano visto con stupore sorgere tra le rovine della piazza il piccolo villaggio delle tende, gli uomini lavorare coi guanti alle mani; ora ascoltavano il lamento che usciva dall’altoparlante e riempiva gli spazi tra monte e monte. Ehi, amigo! Niente segnorina?. I cavatori pensavano che ormai l’inferno era finito, e che se questa gente avesse dato loro delle tende, presto sarebbe nato un nuovo paese, nuovi paesi attaccati alla costa del mente; che il vento delle forre avrebbe fatto fremere come le foglie dei castagni. Ma quelle tende sarebbero state almeno sufficienti per riparare dai primi freddi dell’inverno. Suonava, intanto, l’altoparlante, nella piazza, una musica che sembrava tutta uguale; e i cavatori ripensarono alla cantilena dolce delle segherie. Possibile segnorina? Noi dare sigarette. Allora i ragazzi, che si erano spinti fino in mezzo alle tende, dissero della Clelia, quella che teneva il caffè sulla strada che porta al mare: ma il caffè era andato distrutto, e la donna, che se l’era fatta coi tedeschi, se ne stava chissà dove, per la paura che le tagliassero i capelli. Good!. Così una mattina la Clelia riapparve attraverso il paese, a bordo di una jeep carica di americani; aveva la stessa aria di quando passava in macchina insieme a quelli della Hermann Goering. Le donne, che ancora sembravano spettri nei boschi, sputarono nella polvere della via. Cambiano i suonatori, dissero, ma la musica rimane la stessa. La musica erano le macerie intorno, le cave morte, le segherie paralizzate sugli argini dei fiumi. Musica erano i campi minati che si stendevano sopra intere coste del monte, con cartelli piantati in terra che avevano il teschio dipinto sopra: Achtung! Minen. Musica la fame come nei boschi, la coda davanti alla bottega per comprare un pezzo di pane e un’aringa: il conto che si allungava sui fogli del grosso quaderno e la voce del padrone che diceva: ora basta col credito. Quando Clelia giunse davanti al gruppo dei cavatori, seduti colle gambe ciondoloni sul muro, alzò la testa come per ridere al cielo così che i capelli le si mossero sulle spalle. Noi si credeva, dissero i cavatori. E invece. Avevano creduto di rimettere in piedi il paese, tanti paesi magari colle casette fatte di tela cerata. Avevano creduto di rimettere in funzione le segherie. Di ripulire il terreno. Di udire ancora il suono dei corni annunciare la frana del marmo. E invece, dissero guardando i capelli della donna sulla jeep, che le facevano una nuvola d’oro intorno alla testa, rieccoci qua. Delle mine ne avevano parlato al comando americano; ma la cosa riguardava il genio civile, aveva risposto l’ufficiale senza smettere un minuto di masticare. Delle cave, anche. Stava ai padroni riprendere il lavoro e rimettere in funzione le segherie.

Quanto alla fame, loro potevano dare pane bianco e scatolette, aveva detto l’ufficiale continuando a muovere le mandibole, a patto che le donne venissero al campo per lavare mutande e camicie. E la fame ne cacciò qualcuna, come lupi, dentro l’accampamento dove si suonava il jazz. Dalla mattina fino a notte alta continuava, intanto, quello strano lamento a ripetersi senza fine, ingrandito e moltiplicato dall’eco. I cavatori, uomini abituati a lavorare vicino al cielo, e che del cielo avevano negli occhi lo stupito silenzio, ne furono presto stanchi. Stanchi, anche, del pane bianco che non aveva sapore e non bastava a levare la fame; e delle scatolette, stanchi; e degli occhi delle loro donne che si erano fatti duri come per tenere dentro un segreto. Abituati, com’erano, al canto dolce e strascicato delle segherie, al suono morbido dei corni e al fragore delle cave, subito spento: quel motivo che si contorceva nell’aria mise loro addosso un senso di malessere fisico. Qui, dissero, bisogna fare qualcosa, altrimenti si crepa. Qualcuno si mise subito dattorno, in cerca di legna da portare a vendere in pianura; ma qua e là, dai campi minati che non avevano cartelli col teschio, si alzarono colonne nere di fumo e di terra, seguite da boati che scuotevano la montagna. Le donne piansero nelle strade, e al loro pianto fece eco la musica pazza che continuava a riempire l’aria. Sentite, gente, disse allora uno dei cavatori. E raccontò com’era stato dai padroni, che non volevano riprendere i lavori; e come lui avesse tentato di convincerli, senza riuscire. I padroni aspettavano i velieri, per imbarcare il marmo; e i vagoni del treno; e le ordinazioni. Loro non volevano rischiare. Quando i velieri avessero attraccato di nuovo al ponte di Forte dei Marmi ( e anche quello era andato distrutto ), allora soltanto essi avrebbero iniziato i lavori. Il cavatore finì maledicendo alla paura, e disse che la provvidenza non viene dal cielo. Dall’accampamento il vento portava lo stesso motivo, le luci dei riflettori alzavano la polvere delle macerie alle stelle. Una jeep che rideva nella notte, a gola piena, la gola di Clelia, saettò per la strada contorta; illuminò per un attimo i pantaloni dei cavatori e i sottanoni scuri dello donne. La risata si perse nel buio, rimase il rombo del motore, poi solo la musica jazz che pareva facesse danzare le stelle. E lontano, debole, il pianto di una donna che aveva avuto il morto sulle mine. Tocca a noi rimettere le segherie in funzione, dissero i cavatori. Faremo da soli, colle nostre braccia. E quando ancora il sole era dietro la vetta dell’Altissimo già si udirono le voci degli uomini chiamarsi sugli argini dei torrenti. Allora sembrò che la montagna, simile ad una bestia da tempo assopita si risvegliasse da un lungo sonno e distendesse le membra rattrappite. Jazz e colpi di mazza echeggiarono confusi nella vallata. Quando le segherie prenderanno a cantare, alla radio degli americani mancherà il fiato per farsi sentire, si disse in paese. Finalmente, i cavatori annunciarono un giorno che tutto era pronto: bastava fare il contatto della corrente e le seghe si sarebbero mosse. Vecchi, donne e bambini sciamarono nelle strade gridando. W’ hat ’s the matter, paisà? Chiedevano gli americani. Essi guardavano intorno con un sorriso preoccupato sulle labbra. Niente Joe, risposero i ragazzi eccitati. Presto grande canzone. Grande canzone? Chi cantare? Chiesero stupiti. La gente fece un gesto intorno, come a dire: la montagna. E gli americani scossero il capo. You mad, bisbigliarono. Poi i cavatori scesero agli argini delle segherie; restarono gli altri davanti alla piazza, muti. Suonava il jazz dell’accampamento, dentro la notte che palpitava. Ecco, qualcuna disse, delle donne in attesa. Ora ha i minuti contati. Quando all’improvviso, lento e come timido e incerto, il rumore strascicato delle seghe sul marmo affiorò in lontananza come un ricordo. Fu un tentativo. Poi prese forza. Infine fu ritmo, ritmo che da anni era spento: e cantilena; e canzone che volò alle stelle sopra le cave e sopra le vette più alte dei monti. Allora agli uomini e alle donne in ascolto, anche, sembrò di cantare: sembrò che qualcosa di loro volasse al cielo sulle ali della grande canzone. Hell!, dissero gli americani. E più non riuscivano a sentire la loro musica jazz.

-Marcello Venturi-

POESIA DEL RAGAZZO PROLETARIO
Dal mattino alla sera, mio padre
lavora, suda, si dà da fare.
Non esiste un uomo migliore di mio padre,
no, non esiste.
Mio padre va in giro con la giacca rotta,
ma a me compra il vestito buono
e mi parla di un bel futuro
con grande amore.
Mio padre è prigioniero dei ricchi,
è maltrattato, umiliato, il mio povero padre;
ma quando viene la sera
ci porta a casa una lieta speranza.
Mio padre è un grande uomo, un combattente,
per noi sacrifica il suo orgoglio e la forza,
ma non si piega davanti ai ricchi.
Mio padre è triste, è un uomo povero,
ma se non fosse per me, suo figlio,
egli fermerebbe per sempre
questa giostra di brutte faccende.
Mio padre, se lo volesse,
non ci sarebbero più ricchi
e i miei piccoli amici, tutti,
sarebbero uguali a me.
Mio padre, se parlasse,
oh, farebbe tremare molta gente
e certi tipi non avrebbero più
un’aria tanto allegra e felice.
Mio padre lavora e lotta,
nessuno è più forte di lui.
E’ più potente del re,
mio padre.
-Andrea Ady-
 
 
 

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