Non vi è ancora l’attenzione che meriterebbe la poesia anche
se il numero dei poeti o degli aspiranti poeti è aumentato; esistono
pubblicazioni importanti e la lettura poetica è cresciuta insieme alla sua
attualità; si riscontrano espressioni che s’innalzano al di sopra di una media
dignitosa ed interessante e alcuni componimenti stupiscono ed entusiasmano;
scaturiti da pulsioni giovanili, fanno sperare in probabili opere immortali e/o
conosciute. Fondamentale è la non omologazione, l’originalità della ricerca,
l’espressione spirituale. Con i mezzi moderni, il risalto nelle pagine più
cliccate, un rettangolino più evidente, una civetta che indichi l’accesso alla
lettura ed alla scrittura, allo scambio, alla ricerca e alle sensazioni, una
promozione per facilitare il compito essenziale di ricreare e infondere nel
linguaggio anticorpi contro la volgarità alienante.
FRA BARTOLOME’ DE LAS CASAS
Uno pensa, tornando a casa stanco, di notte
nella nebbia fredda di maggio, uscito
dal sindacato (nella smozzicata
lotta quotidiana, nella stagione
piovosa che goccia dalle gronde, nel sordo
battito della costante sofferenza)
a questa resurrezione travestita,
astuta, degradata,
di incantatori e di catene,
e quando ti sale l’angoscia
fino a infilarsi con te nella porta,
sorge una luce antica, dolce e dura
come un metallo, come un astro sepolto.
Padre Bartolomé, grazie per questo
regalo della cruda mezzanotte,
grazie perché il tuo filo fu invincibile:
poteva morire schiacciato, morso
dal cane con le fauci piene d’ira,
poteva restare tra la cenere
della casa incendiata,
poteva tagliarlo la fredda lama
dell’assassino innumerevole
o l’odio amministrato tra i sorrisi
(il tradimento del nuovo crociato),
la menzogna scagliata alla finestra.
Poteva morire il filo cristallino,
l’irriducibile trasparenza
trasformata in azione, in combattivo
ed erto acciaio di cascata.
Poche vite dà l’uomo come la tua, poche
ombre ha l’albero come la tua, a lei tutte
le vive braci del continente si rivolgono,
tutte le abbattute condizioni, la ferita
del mutilato, i villaggi
annientati, alla tua ombra tutto
rinasce, e dal confine
dell’agonia tu fondi la speranza.
Fu una fortuna, padre, per l’uomo e la sua specie
che tu arrivassi nella piantagione,
che tu mordessi i neri cereali
del delitto, e che bevessi
ogni giorno alla coppa della collera.
Chi ti mise, nudo mortale,
tra i denti della furia?
Come fecero a spuntare altri occhi,
di altro metallo, quando tu nascevi?
Come si mescolano i lieviti
nell’oscura farina umana
perché il tuo grano immutabile
si impastasse nel pane del mondo?
Eri realtà in mezzo a fantasmi
incattiviti, eri
l’eternità della tenerezza
sulla raffica del castigo.
Di battaglia in battaglia la tua speranza
si trasformò in precisi utensili:
la solitaria lotta mise i rami,
il pianto inutile si unì in partito.
Non servì la pietà. Quando mostravi
le tue colonne, la tua nave protettrice,
la benedicente mano, la tua veste,
il nemico calpestava le lacrime
e sgretolava il colore del giglio.
Non servì la pietà alta e vuota
come una cattedrale abbandonata.
Fu la tua invitta fermezza, l’attiva
resistenza, il cuore armato.
Fu la ragione la tua materia titanica.
Fu il fiore organizzato la tua struttura.
Sussiegosi iniziarono a guardarti
(dalla loro altezza) i conquistadores,
appoggiandosi come ombre di pietra
ai loro spadoni, opprimendo
coi loro sarcastici sputi
le terre della tua iniziativa,
dicendo: “ Ecco qua l’agitatore “,
mentendo: “ L’han pagato
gli stranieri “,
“ Non ha patria “, “ Tradisce “,
ma la tua predica non era
fragile attimo, fugace
modello, orologio di viandante.
Il tuo legno era bosco combattuto,
ferro nel suo giacimento, nascosto
a ogni luce sulla terra fiorita,
e addirittura più profondo:
nell’unità del tempo, nel percorso
della vita, la tua mano protesa
era stella zodiacale, segno del popolo.
Padre, entra oggi con me in questa casa.
Ti mostrerò le lettere, il supplizio
della mia gente, del perseguitato.
Ti mostrerò le sofferenze antiche.
E per non cadere, per resistere
sulla terra, e continuare a lottare,
lascia nel mio cuore il vino errante
e l’implacabile pane della tua dolcezza.
-PABLO NERUDA-
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