IPOCRISIA
sabato, 27 febbraio 2010
IPOCRISIA
Senza di lei saremmo perduti: La vita non sarebbe più
sopportabile. La vita simile a un deserto abitato da pochi uomini randagi,
senza famiglia e senza amici, in perpetua guerra fra loro. Sembra un paradosso,
ma una società più è evoluta, colta, raffinata, e più ha bisogno per reggersi
dell’ipocrisia. L’articolazione del corpo sociale è ormai così complessa che
ogni rapporto tra cittadino e Stato, o tra famiglia e famiglia, deve essere
inevitabilmente mediato, filtrato, lubrificato. L’ipocrisia è un olio, senza il
quale si provocherebbero frizioni a getto continuo, inevitabili qualora la
sincerità, come vogliono i poeti, governasse davvero il mondo. E’ una parola
che non mi piace, ipocrisia, perché sa di calcolo, ed è vero. Ma se non
ponessimo ogni volta un minimo di attenzione agli effetti che le parole o i
gesti hanno su gli altri, passeremmo la vita a insolentirci. Forse per i greci,
che chiamavano hypokrites l’attore istrione, il termine non era così
dispregiativo, era un ruolo come gli altri, una maschera teatrale accettata per
quel che era. Invece nella commedia umana vorremmo che l’ipocrita non
esistesse, che scomparisse dalla faccia della terra, senza immaginare a quali
più disastrosi effetti andremmo incontro, in balìa di sensazioni troppo spesso
oscure, che a nulla varrebbe dichiarare. C’è un’età, la giovinezza, nella quale
è più intollerabile questo atteggiamento dell’animo. Ipocrita è un epiteto che
pronunciamo con rabbia. Questo vizio appare così vecchio e turpe da risultare
incomprensibile quando si hanno vent’anni. E infatti l’ipocrisia è una sclerosi
del cuore, un’infezione della mente destinata a peggiorare con l’età. Perché
mentire? Perché ingannare? Perché rifiutarsi di dire la verità? Sono domande
ingenue, ma che vengono al labbro se, aprendo un giornale, si leggono le
dichiarazioni di un capo di Stato, o si ascoltano dalla radio le
giustificazioni di un uomo politico. Eppure soltanto nella maturità si riesce
ad accettarle, capire che esse sono dettate dalla necessità di una civile
convivenza. Infatti di un bambino non ipocrita diciamo che è maleducato. Perché
l’educazione stessa è ipocrisia, è un insieme di regole e abitudini e
convenzioni fondate sulla finzione. Come si può onestamente dire Molto lieto a
uno sconosciuto che ci viene presentato in quel momento? Il guaio è che lo
diciamo anche quando avremmo fondati motivi per non stringergli la mano. E così
diciamo Come stai? Senza quasi attendere la risposta, e diciamo Buon pranzo o
Buona notte solo per il piacere di sentirceli restituiti. L’ipocrisia è il
sentimento ispiratore di questa ragnatela di convenienze che avvolge fittamente
le nostre giornate. Posso trasgredirne qualcuna, in nome della spontaneità, ma
quasi sempre finirò per pentirmene. Non dovevi dirle che il secondo atto non ti
è piaciuto! Ma perché, se siamo amici? Lo so, ma a un’attrice non si deve
dirlo… Era così vero che lei non mi invitò più alle sue prime, come se io
avessi messo in dubbio non la qualità del testo ma la sua interpretazione. Vi
sono individui invece che hanno spiccatissima questa dote: di saper dire sempre
ciò che è gradito, mentendo spudoratamente ma acquistandosi la benevolenza di
ciascuno. Sono gli adulatori, la razza peggiore di ipocriti, poiché la loro
piaggeria è sempre rivolta ai potenti o a coloro che essi credono tali.
Sprovvisto di orgoglio e di quel minimo rispetto che ognuno dovrebbe avere per
se stesso, l’adulatore spreca la sua intelligenza nel corteggiare, col medesimo
impegno che un innamorato metterebbe, persone appena conosciute ma in grado di
elargire favori. Egli è bravissimo nel sollecitare l’altrui vanità, nell’inviare
fiori e omaggi, nel ricordare compleanni e onomastici, nel profondersi in
piccole cortesie, simulando una devozione che non ha altro fine che ottenere
qualche grazia. Uffici, caserme ospedali sono pieni di adulatori, come ogni
luogo dove esiste chi comanda e chi ubbidisce. Mentre vi sono professioni dove
l’ipocrisia è addirittura un requisito.
Come poter fare il diplomatico o il funzionario di partito, il viaggiatore di commercio o la prostituta, se non si conosce l’arte di far buon viso a cattivo gioco? Simulare atteggiamenti, saper piangere e saper ridere, nascondere con eguale abilità il dolore e la gioia, come se la vita fosse un grande palcoscenico dove esibire le proprie qualità di attori, mi ha sempre affascinato proprio perché non so farlo. Eppure sono il primo a cadere nella trappola: a credere nelle lacrime di una donna o alla risata di un adulatore. Solo più tardi, ripensandoci, posso dubitare della loro autenticità, chiedermi se quel pianto non tendesse a ricattarmi o quella sghignazzata a propiziare il mio interesse. C’è un’ipocrisia della dissimulazione, che è difensiva. La prima viene espressa senza che ve ne sia bisogno, e ha maggiori probabilità di riuscita perché è rivolta a un avversario che non ha sospetti. La seconda è il tentativo di celare un sentimento che potrebbe danneggiarci. Direi che dissimulare è umano, mentre simulare è diabolico. Certo in amore l’ipocrisia ha un ruolo primario, al punto che per noi stessi, a volte, è difficile distinguerla dalla verità. Infatti, appena smettiamo quell’abito di amorosa affettazione che è d’abitudine, suscitiamo subito allarme. Hai una voce strana, oggi. Cosa vuoi dire? Non so, come se t’importasse poco di me… Ma sei pazza? Invece era la verità. L’avevo chiamata controvoglia, e così ora per non darle una delusione, le avevo inoculato un cumulo di sospetti. Perché il telefono è un rivelatore perfino delle intenzioni: una pausa involontaria, un’incertezza subito ci tradiscono poiché tutta l’attenzione, non essendo distratti dal volto, è fissa alle sfumature della voce. Dunque, poiché la franchezza è impraticabile tra due innamorati, sarà opportuno astenersi dal fingere per telefono qualunque sentimento. Si aspetti d’esser viso a viso: se hai doti di recitazione ne uscirai molto meglio, a meno che la telefonata non sia studiata prima in ogni dettaglio, come un vero copione. Per mentire con successo non si può improvvisare: occorre, come negli scacchi, poter prevedere le possibili risposte. Scusa, ma sei sola? E chi dovrebbe esserci? Non so, mi pareva.
La saggezza sarebbe tenersi il dubbio, non approfondire mai. Invece vogliamo subito sapere, andare a fondo, e magari alla fine soffrire quando all’ipocrisia si sostituisce bruscamente la sincerità. Va bene, non sono sola. E allora? Allora è ancora peggio, è il crollo, la fine di tutto, almeno mi avesse detto una bugia, poteva trovare un pretesto, hanno ragione quelli che dicono che in amore si dovrebbe negare sempre, negare per principio, negare anche l’evidenza, poiché negli affari di cuore la sincerità è molto più crudele, è una frustata in pieno volto, è una provocazione peggiore dell’ipocrisia. Soprattutto gli approcci si alimentano di infingimenti, quando una simpatia non è ancora divenuta una relazione, ma solo una serie di occasioni e di incontri nei quali ci si studia a vicenda. Che fortuna, averla incontrata! Lei sorride. Anch’io la rivedo con piacere. Non poteva sospettare che in realtà l’avevo seguita dal portone di casa fin dentro la stazione della metropolitana. Se glielo avessi detto si sarebbe sentita dapprima lusingata e subito dopo disillusa, poiché tutti amiamo credere che un amore sia frutto del caso piuttosto che della volontà. E spesso, proprio dissimulando i veri sentimenti che ci spingono verso una persona, fingendo un’indifferenza che è esattamente l’opposto di ciò che sentiamo, è possibile arrivare a una conquista insperata, che senza l’ausilio dell’ipocrisia non avremmo attenuto. Allo stesso modo una donna, che si sarebbe eclissata di fronte a un interesse dichiarato, più facilmente si lascia coinvolgere nel gioco ambiguo dei sottintesi e delle piccole complicità. L’ipocrisia ha dunque in amore una parte da regina. Speranze, attese, incertezze, smarrimenti, capricci vivono avvolti in questo velo impalpabile, che neppure la coscienza riesce, certe volte, a lacerare. Ed è quando si è incapaci di prendere atto di una realtà sgradevole, oppure di un sentimento che, identificato, non possiamo sopportare. E’ quando mi ritrovo innamorato e cerco di nasconderlo. E’ quando vorrei segretamente che t’innamorassi tu di qualcun altro e mi lasciassi libero. E’ quando mi sforzo a desiderarti per provarti che non ti ho tradito. E’ quando non oso confessarmi una verità vergognosa, questa è l’ipocrisia peggiore, quella verso se stessi. Al pari di una malattia che non si è ancora rivelata, essa genera dentro di me un confuso stato di malessere, un disagio crescente a cui non so dare nome. Qualcosa che ho pensato, visto, sentito mi inquieta, turba i miei sonni, si insinua nei momenti di solitudine. Basterebbe che vi porgessi l’orecchio con decisione per sapere di che si tratta, invece qualcosa me lo impedisce appena sento affiorare la verità, perché in effetti non desidero saperlo. Così mi sforzo a una serenità che non provo, mi ripeto che non ho il diritto di allarmare chi mi sta vicino, fingo di essere del mio umore abituale, sapendo che prima o poi quest’ombra si dileguerà, che passerà la nube anche stavolta, come passa un disturbo passeggero.
Sotto questo aspetto l’ipocrisia con se stessi funzione come un antidoto ai veleni dell’inconscio, impedisce di scoperchiare la fossa dei serpenti, di visionare lo stato di sfacelo, quel coacervo di paure e desideri inconfessabili che ognuno si porta dentro e che si stratifica col passare degli anni. Ecco perché non riuscirei a vivere senza il soccorso dell’ipocrisia, senza questo fegato invisibile che depura i pensieri, che filtra i significati più tossici, e che uso, al pari di uno smalto, per abbellire i gesti più sconvenienti. D’altra parte, se pure l’ipocrisia e della natura umana, è anche vero che veniamo addestrati, incoraggiati a esprimerla fin dall’infanzia. A chi vuoi più bene, al papà o alla mamma? A tutti e due. Impariamo da piccoli qual è il tipo di risposta che ci si aspetta da noi, e quali sono le conseguenze di un’eventuale trasgressione. Ugualmente, a scuola, la composizione d’italiano e poi i temi sono incoraggiamenti espliciti all’impostura. Scriviamo che la maestra è buona e mi vuol bene del tutto consapevoli che affermare il contrario sarebbe fuori dalle regole. L’ipocrisia è questione di stile. E’ l’abito con cui l’uomo civilizzato ha attraversato i millenni. Tant’è vero che oggi definisco ipocrita, senza mezzi termini, il poveraccio costretto a mentire per bisogno. Mentre chiamo diplomatico chi cerca di ingannarmi con signorilità. E che dire del tartufismo, fenomeno anch’esso prodotto da una società che onora l’apparenza in luogo della sostanza? Il personaggio di Tartuffe, immortalato da Molière, baciapile e disonesto, abile nel dissimulare i sentimenti più immorali sotto una veste di devozione religiosa, è divenuto prototipo riconoscibile di una certa classe politica. Qualcuno, invece, pretende che l’ipocrisia, sebbene frutto della natura umana, sarebbe incentivata dal capitalismo, mentre sarebbe scoraggiata in una società comunista. Sarebbe bello crederlo, se non fosse anche questa ipocrisia.
LO SCIALLETTOCor
venticello che scartoccia l'arberientra
una foja in camera da letto.E'
l'inverno che arriva e, come ar solito,quanno
passa de qua, lascia un bijetto.Jole,
infatti, me dice: stamattiname
vojo mette quarche cosa addosso;nun
hai sentito ch'aria frizzantina?E
cava fori lo scialletto rosso,che
sta riposto fra la naftalina.M'hai
conosciuto proprio co' 'sto scialle:te
ricordi? Me chiede: e, mentre parla,se
l'intorcina stretto su le spalle.S'è
conservato sempre d'un colore:nun
c'è nemmeno l'ombra d'una tarla!Bisognerebbe
ritrovà un sistemape'
conservà così pure l'amore...E
Jole ride, fa l'indifferente:ma
se sente la voce che je trema.-TRILUSSA-
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